sabato 31 agosto 2013

La proposta Gawronski


Dopo averla preannunciata senza fornire dettagli, ieri Pier Giorgio Gawronski ha pubblicato la sua proposta di introduzione di uno strumento “quasi monetario” finalizzato a un’azione di sostegno della domanda.
 
Viene descritto come “titoli pubblici ad ampia circolazione utilizzabili per pagare tasse, bollette ecc.”
 
Si tratta in effetti di una forma di Certificati di Credito Fiscale. La dimensione proposta è però limitata (25-30 miliardi annui per finanziare spesa pubblica e minori tasse). Il progetto CCF descritto in questo blog punta a una dimensione ben maggiore (200 miliardi annui).
 
Un altro punto non presente nella proposta di Gawronski (o almeno non esplicitato nell’articolo) è l’utilizzo di una parte rilevante dei titoli per ridurre i costi di lavoro delle imprese (ma senza penalizzare, anzi migliorando, i redditi dei dipendenti).
 
Questo è fondamentale per migliorare la competitività delle aziende italiane. Se la si riporta ai livelli dei paesi più efficienti dell’Eurozona, si evita che una parte significativa dell’azione di sostegno alla domanda si traduca non in maggior PIL italiano, ma in maggiori importazioni.
 
Anche solo per questa componente servono però importi maggiori (io ne avevo stimati 80 abbondanti, su un totale di 200).
 
Comunque la proposta Gawronski può essere un primo passo. E’ insufficiente di per sé ma va nella direzione giusta, e non è da escludere che la riforma del sistema monetario e l’introduzione delle corrette politiche macroeconomiche avvengano, alla fine, con una serie di passaggi (magari “sotto i radar”) e non con un’unica azione.

martedì 27 agosto 2013

CCF: un progetto kaleckiano ?


Michal Kalecki (1899 – 1970), economista polacco, è spesso definito un precursore delle idee esposte nella “Teoria Generale” di Keynes.
 
In effetti, prima di Keynes e indipendemente da lui, Kalecki formulò una serie principi generali di fondamentale importanza, in merito tra l’altro all’utilizzo di politiche governative di sostegno della domanda per portare i sistemi economici alla piena occupazione.
 
Keynes riconobbe la priorità di Kalecki nel pubblicare queste tesi, anche se fu l’economista inglese a renderle note a livello internazionale. Kalecki non fu aiutato, da questo punto di vista, dal fatto di scrivere in polacco.
 
Nello sviluppare e nel descrivere i contenuti del progetto Certificati di Credito Fiscale, l’ho frequentemente definito un’innovazione di politica economica di matrice keynesiana.
 
Tre elementi del progetto CCF sono di particolare rilievo.
 
Il primo elemento è la possibilità, per i vari paesi appartenenti all’Eurozona, di introdurre titoli di Stato (i Certificati di Credito Fiscale, appunto) che il governo emittente si impegna non a rimborsare in cash, ma ad accettare (in futuro) per onorare obbligazioni finanziarie nei suoi confronti. In primo luogo, quindi, per pagare tasse.
 
Non si tratta quindi di debito, bensì di un equivalente della moneta. I vari stati, senza uscire dal sistema euro, recuperano la facoltà di emettere una forma di moneta nazionale.
 
Il secondo elemento del progetto è l’emissione di CCF per effettuare azioni di sostegno della domanda in misura sufficiente a riportare l’economia a normali ed adeguate condizioni di occupazione.
 
I CCF vengono attribuiti gratuitamente a lavoratori, aziende e allo Stato medesimo.
 
I lavoratori migliorano così il loro reddito. Le aziende abbassano i loro costi (con un immediato recupero di competitività). Lo Stato utilizzano i CCF per ulteriori azioni di sostegno alla spesa (sovvenzioni a categorie disagiate, rafforzamento di spesa sociale, interventi in territori colpiti da calamità naturali, accelerazione di pagamenti ad aziende fornitrici della pubblica amministrazione eccetera).
 
Il terzo elemento è che la porzione di CCF destinata a ridurre i costi delle aziende va dimensionata in modo da abbassare i costi produttivi delle aziende operanti nei vari stati fino al livello che consente ai paesi meno efficienti dell’Eurozona (i paesi mediterranei, in pratica) di colmare la differenza con i paesi dell’ex area marco (la Germania in primo luogo).
 
Quindi, riportare il costo del lavoro per unità di prodotto dei vari stati a livelli all’incirca uguali, ottenendo per un’altra via il risultato che – in regime di valute nazionali e cambi flessibili – verrebbe conseguito mediante un riallineamento valutario.
 
Il riallineamento dei costi di lavoro per unità di prodotto ha anche la finalità di impedire che, tra i vari stati dell’Eurozona, si producano sbilanci commerciali sistematici. I paesi che migliorano la loro competitività mediante l’introduzione dei CCF hanno l’obiettivo di recuperare contemporaneamente piena occupazione ed equilibrio della loro bilancia commerciale.
 
Pochi giorni fa mi sono imbattuto in questa citazione.
 
“La piena occupazione può essere assicurata da un programma di spesa pubblica, a condizione che esista un adeguato piano per impiegare tutta la forza lavoro esistente, e purché adeguate forniture di materie prime estere possano essere ottenute in cambio delle esportazioni”.
Michal Kalecki, 1943
 
Due precisazioni un po’ pignole: il “programma di spesa pubblica” dal punto di vista della formulazione del progetto CCF è più precisamente un “programma di sostegno pubblico alla spesa” – spesa che in buona parte è, alla fine, privata.
 
E l’”adeguato piano per impiegare tutta la forza lavoro esistente” sempre dal punto di vista del progetto CCF non significa necessariamente espandere (o espandere solo) il pubblico impiego, ma anche e soprattutto l’occupazione delle aziende private (grazie al recupero generale della domanda).
 
Ma stiamo comunque parlando di: politica pubblica di sostegno alla spesa, e conseguimento del pieno impiego, rispettando il vincolo di saldi commerciali esteri in equilibrio.
 
Direi quanto basta per definire i CCF un progetto kaleckiano.

martedì 20 agosto 2013

Amerikani e spaventapasseri: la guerra continua

L’amerikano Tommaso Monacelli continua nella sua implacabile battaglia contro gli uomini di paglia.
 
Dopo aver confutato la tesi che “l’introduzione dell’euro è all’origine del rallentamento della produttività in Italia” (tesi A) è partito all’attacco di un’altra affermazione che, a suo dire, è anch’essa un cavallo di battaglia degli “euro-exiters”.
 
La “tesi B” è che l’Italia è entrata nell’euro sulla base di un cambio sbagliato, subendo quindi, fin dall’inizio, una penalizzazione e un impatto negativo sulla domanda.
 
Personalmente, ritengo la tesi A plausibile: se perdo competitività rispetto al mio principale concorrente, la Germania (non perché non sono in grado di migliorare la produttività intesa come unità fisiche prodotte / unità di lavoro utilizzate, ma perché sono meno efficace nel controllare i salari) perdo quote di mercato. Le mie aziende crescono di meno, perdono redditività, hanno meno risorse da investire in innovazione, il che influenza in negativo la produttività.
 
Sulla tesi B ho parecchi dubbi in più: negli anni dell’ingresso dell’Italia nell’euro (1999 e subito dopo) i saldi commerciali italiani erano grosso modo in pari. Il deficit medio delle partite correnti italiane, nel periodo 1999-2003, è stato un minuscolo 0,1% del PIL.
 
Quello che a Monacelli continua a sfuggire è che nessuna di queste due tesi è determinante per affermare che l’euro, così com’è oggi, è un meccanismo che non funziona.
 
Ammettiamo pure che il cambio di partenza – 990 lire per marco, 1936,27 lire per euro – fosse corretto. E ammettiamo pure che il rallentamento nella crescita della produttività italiana dopo il 1999 sia dovuto ad altri fattori.
 
Rimane il fatto che la perdita di competitività dell’Italia nei confronti della Germania (competitività definita come costo del lavoro per unità di prodotto) in un regime di cambi flessibili sarebbe stata tranquillamente gestita con un graduale rafforzamento del marco tedesco rispetto alla lira italiana.
 
E non si sarebbero accumulati i surplus finanziari del Nord Europa verso il Sud, avremmo evitato la crisi di bilancia dei pagamenti, la crescita dello spread, presumibilmente nessuno avrebbe pensato di “affrontare il problema” con le politiche di austerità, eccetera.
 
Questa è la “tesi C” che Monacelli deve confutare, se vuole effettivamente attaccare quelli che lui chiama “euro-exiters” (per le ragioni chiare a chi legge abitualmente questo blog, io preferisco dire “euro-reformers”).
 
Si spera che la confutazione utilizzi argomenti un po’ più articolati di quelli usati nel rispondere (nel post precedente) ai commenti dei lettori. A un certo punto Monacelli dice: “siccome siamo un paese con istituzioni fatiscenti, almeno dateci il cambio per svalutare ! come dire: da quando ho smesso di fumare ho ripreso a ingrassare, per favore ridatemi le sigarette. Questo mi pare l’unico argomento in bocca agli euro-exiters”.
 
Torniamo al mantra: la svalutazione equivale ad avvelenarsi con il tabacco. La svalutazione è brutta perché è brutta. Ma la svalutazione rispetto a chi e a che cosa ?
 
A inizio 1999, l’euro è entrato in quotazione e valeva 1,18 dollari e 0,71 sterline. Oggi (20.8.2013) rispettivamente 1,34 e 0,85.
 
Se ci fossimo tenuti la lira (supponiamo per comodità di calcolo a 1:1 contro il marco), a quale cambio ci avrebbero portato le nostre “istituzioni fatiscenti” ? la stima più plausibile è: a quello che manteneva invariato il costo del lavoro per unità di prodotto, compensando il vantaggio acquisito in questi anni dalla Germania. Che (dati OCSE) è stimato nel 20% circa.
 
Attenzione, questo delta sarebbe stato la somma di DUE variazioni: apprezzamento del 10% per cento della moneta tedesca verso le altre, e deprezzamento del 10% della moneta italiana.
 
Per cui contro dollaro e sterlina oggi saremmo all’incirca a 1,21 e a 0,765. Eh sì. Ci saremmo comunque RIVALUTATI (rispetto al 1999) sia verso USA che verso UK.
 
Se il livello equilibrato dei cambi va di pari passo con la qualità degli istituzioni (chiamiamola “tesi Monacelli”) l’Italia in quasi quindic’anni è diventata meno “fatiscente” di prima, almeno nei confronti di americani e inglesi.
 
Apparentemente questo a Monacelli non basta. O si marcia rigorosamente al passo (dell’oca ?) tedesco, o si è ineluttabilmente condannati al tumore ai polmoni…

mercoledì 14 agosto 2013

Amerikani e spaventapasseri


Noise from Amerika (nfA) è un blog gestito da un gruppo di economisti italiani, che vivono o lavorano (o l’hanno fatto in passato) negli USA. Diversi di loro hanno partecipato al progetto politico di Fare – Fermare il declino.
 
Il 10 agosto scorso è uscito su nfA un post di Tommaso Monacelli, preannunciato come il primo di una serie destinata a smontare le tesi dei propagandisti anti-euro, o più precisamente a confutare le tesi di chi sostiene che l’euro è all’origine della pessima situazione odierna dell’economia italiana.
 
Tommaso Monacelli è definito da un altro blogger di nfA (Alberto Bisin) come “persona che di economia internazionale ne sa più di qualunque altro in Italia”.
 
Ho letto quindi il post con interesse. Un primo commento che farei a Monacelli (sono quei suggerimenti un po’ retorici, che essendo non richiesti difficilmente vengono seguiti dal destinatario, ma comunque…) è di scrivere in un linguaggio meno “iniziatico”. E’ mia personale convinzione che la matematica e le formulazioni teoriche, con ampio utilizzo di modelli, regressioni, causazioni, multivariazioni, bivariazioni e quant’altro, sono sicuramente utili per elaborare e validare ipotesi.
 
Ma se poi, arrivati a una conclusione, non si è in grado di tradurla in un linguaggio corrente, comprensibile senza grandi difficoltà a un profano di media intelligenza, media cultura, e un po’ più che media volontà di applicarsi, non si è raggiunto un gran risultato sul piano della divulgazione. E, peggio ancora, si corre il rischio di formulare affermazioni magari corrette e coerenti nell’ambito di un modello astratto, ma che risultano poi slegate dalla realtà quotidiana. Perché l’economia E’ realtà quotidiana.
 
Detto questo, la cosa che più mi ha stupito del post di Monacelli è che si tratta di un classico “argomento dell’uomo di paglia”, o dello “spaventapasseri” (straw man argument). Cioè, come da definizione wikipedia, di un “argomento fallace che consiste nel confutare un (altro) argomento riproponendolo in maniera errata”.
 
Monacelli dedica il post a smontare la tesi che l’ingresso dell’Italia nell’euro sia stato l’origine del declino di crescita della produttività (in termini assoluti e ancora di più relativamente alla media dell’Eurozona) che ha afflitto l’Italia a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. In quanto, a suo dire, i “propagandisti anti-euro” sostengono che questo è stato il meccanismo tramite il quale l’euro ha esercitato i suoi effetti nocivi.
 
Ora, i “propagandisti anti-euro” naturalmente sono non una ma molte persone, e questa affermazione da qualcuno sarà magari anche stata fatta. Il punto però è che la tesi a mio parere corretta, e formulata dalla maggior parte di questi “propagandisti” (me compreso) è un’altra.
 
Quello che non ha funzionato nell’euro è che alcuni paesi (la Germania in primo luogo) hanno migliorato la loro competitività (costo del lavoro per unità di prodotto) rispetto ad altri (tra cui l’Italia). Nel passato, il riallineamento dei cambi produceva la rivalutazione di marco tedesco, fiorino olandese ecc. rispetto alle valute del Sud Europa e impediva la formazione di sbilanci commerciali cronici.
 
In regime di moneta unica, gli sbilanci si sono invece accumulati e hanno creato surplus finanziari crescenti al Nord, e un peggioramento sistematico della posizione finanziaria del Sud verso l’estero. A un certo punto, complice naturalmente anche la crisi finanziaria mondiale che nel 2008 ha raggiunto l’apice con il fallimento Lehman, si è creato il dubbio che gli accumuli di debito del Sud Europa rischiassero di diventare insostenibili, portando il Sud al default oppure all’uscita dall’Eurozona (che avrebbe prodotto la svalutazione delle sue monete e anche dei crediti del Nord Europa verso il Sud).
 
Ora, è stata determinante in tutto questo la minor crescita della produttività italiana ? no. Nel senso che tutto quanto sopra sarebbe avvenuto anche se il rallentamento non ci fosse stato. La maggior disciplina salariale tedesca rispetto al Sud Europa, fenomeno che non nasce certo con l’euro – esisteva anche negli anni 60, 70, 80 e ha infatti prodotto la sistematica rivalutazione del marco – avrebbe comunque causato effetti analoghi.
 
All’origine dell’equivoco apparentemente c’è questo articolo, in cui Alberto Bagnai esprime il sospetto che effettivamente l’euro abbia inciso negativamente sulla produttività italiana. Cosa che a intuito mi pare plausibile. Se perdo competitività (non perché sono meno bravo a migliorare la mia produttività intesa come unità fisiche prodotte per ogni unità di lavoro utilizzato, ma perché sono meno efficace nel contenere i salari) perdo quote di mercato. Le mie aziende crescono di meno, guadagnano di meno, hanno meno risorse da investire in innovazione e questo retroagisce (negativamente) sulla produttività.

In realtà lo stesso Bagnai non arriva a una conclusione perentoria. Si limita a constatare che quello che è cambiato, da fine anni Novanta in poi, è stato che l’Italia è entrata nell’euro.
 
Le aziende italiane faticano perché sono più piccole della media europea ? perché spendono meno in ricerca e sviluppo ? era così anche prima. Se poi realmente lo era, perché i distretti industriali italiani hanno sempre saputo sviluppare “economie di rete” (leggi supplire alla minore dimensione condividendo risorse e progetti). E fare sviluppo applicativo molto efficace, anche se non etichettato come tale (vedi il classico imprenditore progettista genialoide che è una sorta di dipartimento R&S one-man nelle aziende con poche decine di dipendenti).
 
Per cui: i problemi italiani dal lato della produttività possono anche essere causati da qualcosa di diverso dall’euro (anche se non è chiaro da cosa). Ma la disfunzionalità dell’euro è un'altra: l’assenza di meccanismi di flessibilità che compensino gli effetti di differenze di competitività, o di shock asimmetrici di qualsiasi tipo, che nell’arco di alcuni anni, inevitabilmente, si formano tra paesi economicamente disomogenei ma legati da un sistema di cambi fissi (o da un’unione monetaria).
 
Se Monacelli vuole “confutare Bagnai” e trovare un meccanismo che eviti il break-up dell’euro, ma anche la depressione permanente del Sud Europa, deve prendere atto che la mancanza di flessibilità della moneta unica, così com’è oggi, è IL problema.
 
E sostenere proposte di interventi che lo risolvono: che esistono (e gli euro-exiters duri e puri alla Bagnai commettono qui, sì, un errore: di intestardirsi a non vedere altre vie d’uscita che non siano il break-up).

giovedì 8 agosto 2013

Così la vedono i tedeschi ?


Bloggherei volentieri di più, approfittando delle vacanze, ma sono in una zona con connessioni internet orribili (a un’ora di macchina da Milano, manco in Nepal…)
 
Però mi sembra veramente il caso di commentare questa interessante intervista, letta sull’ottimo blog “Irradiazioni”.
 
Intervista a un giornalista, commentatore politico, moglie italiana e casa in Toscana, in grado di essere equanime e neutrale nella valutazione del problema euro.
 
I punti salienti:

“Cosa sta succedendo in Germania ? nulla di rilevante… calma piatta in attesa di settembre… la questione euro è una patata troppo calda…” Qui, tutto come previsto.
 
“Negli ambienti più consapevoli… si è convinti di essere arrivati al punto di snodo. Questa consapevolezza però non è condivisa dall’attuale governo perché c’è una forma di arroganza priva di intelligenza.” Proprio così. Angela Merkel non va al di là di ragionamenti da casalinga (con rispetto e scuse alle casalinghe) e pensa che il problema sia ridurre le uscite per far quadrare i bilanci (degli altri). Wolfgang Schaeuble si sente investito di una missione di purificazione dei reprobi, alla luce di una superiorità morale e intellettuale che constata (solo lui) guardandosi allo specchio.
 
“Il piano era una illusione: vendere sempre di più ai cinesi e fare in modo che sostituissero come mercato di sbocco principale l’Eurozona… C’è una sorta di schizofrenia paralizzante. Tutti si rendono conto che… bisognerebbe alzare i salari medi, però… la parola competitività è intoccabile… (ma) sui mercati orientali non stai sfondando, i tuoi partner principali non sono più in grado di comprarti le auto e tu non compri i loro prodotti alimentando un circolo vizioso…”
 
“L’Italia non uscirà dall’Euro ma non perché farebbe bene o male: perché non ha la capacità politica di decidere cosa fare. Se l’Italia avesse una classe politica cosciente del suo peso specifico in Europa e avesse una classe dirigente di buon livello… avrebbe fatto due conti arrivando alla conclusione di essere “too big to fail” e si sarebbe resa conto di potersi difendere.” Purtroppo è così, ma la ragione è culturale. Gli Italiani non sono stupidi, e neanche codardi. Ma non hanno senso di identità nazionale. La loro fedeltà è a se stessi e alla famiglia. Non pensano (salvo le rare e note eccezioni, che tali però rimangono) agli interessi della nazione, pensano a come allinearsi con chi ha più potere (al momento) per fare meglio i propri. Attenti a cambiare appena cambia il vento.
 
“La Germania non ha di fatto rispettato i trattati ma nessuno gliel’ha fatto notare.” Già, perché se vi hanno detto che i tedeschi sono più corretti degli italiani, vi hanno detto una bugia. Sono corretti nei rapporti interpersonali. Per l’interesse della nazione, del Volk, ogni mistificazione si giustifica.
 
“E quale altro schema si dovrebbe adottare ? un reale schema cooperativo. Una Unione Europea dove non si collabora ma si compete non serve a niente. Più Europa ? No. Più collaborazione.”
 
“Il problema è che non prevedo nulla di diverso da quanto sta accadendo e non credo che le elezioni tedesche cambieranno qualcosa… Gli speculatori e i mercati sono convinti che le politiche adottate sino ad ora comporteranno un allungamento della crisi. Ossia cattivi affari… Il rischio è che decidano di smuovere la situazione con uno shock esterno, un colpo pesante nel punto dove fa più male, ossia l’Italia. Ma l’Italia non è la Grecia e il colpo sarebbe avvertito forte e chiaro anche in Germania.”
 
“Quante probabilità ci sono che sia il mercato a decidere ? In questa situazione di immobilismo molte, moltissime dopo il 22 settembre.”
 
Ecco, quest’ultima cosa non la condivido. Perché c’è sempre la BCE con la macchina da stampa, il “whatever it takes” di Draghi. I mercati lo sanno, e i tedeschi non sono (più) così autoillusi da non capire che come minimo bisogna che l’”opzione Draghi” rimanga viva e vegeta.
 
Anzi credo che faranno anche di più. Guarderanno dall’altra parte mentre si attivano azioni come questa, che possono bastare a trasformare il meno due del PIL italiano in un più zero virgola.
 
E’ un inizio, non è la soluzione. Può essere un passo per arrivarci. Sono sempre più convinto che non sarà il break-up dell'euro, ma la riforma morbida.