martedì 31 dicembre 2013

I datori di lavoro gradiscono un’economia depressa ?


La domanda se la pone Paul Krugman ed è purtroppo molto attuale.

E’ utile innanzi tutto precisare che cos’è una recessione e che cos’è una depressione economica.

OK, c’è la battuta attribuita a Ronald Reagan (ma penso l’avesse copiata da qualcun altro): “recessione è quando il mio vicino di casa perde il lavoro, depressione è quando lo perdo io”. Volendo però essere leggermente più tecnici…

Una recessione è una fase di temporaneo declino dell’economia di un paese. Il declino può essere misurato sulla base di vari parametri, e le due alternative più comuni sono il PIL e l’occupazione.

Attualmente l’andamento dell’economia è così sconfortante che basta un trimestre in cui il PIL reale ha una variazione del più zero virgola qualcosa, o anche dello zero spaccato, perché si senta dire che “la recessione è finita”.

Più propriamente, però, si parla di espansione e di recessione con riferimento all’occupazione. Quando il PIL reale cresce abbastanza rapidamente per ridurre la disoccupazione si parla di espansione, altrimenti di recessione.

Per non essere in recessione dal punto di vista dell’occupazione non basta quindi un più zero virgola qualcosa. Occorre una crescita che assorba l’incremento della forza lavoro tenuto conto anche della crescita demografica, dell’incremento del capitale industriale e dei miglioramenti della produttività (dovuti soprattutto alla tecnologia).

Fino agli anni Ottanta questo richiedeva che il PIL reale si espandesse a tassi medi annui intorno al 2,5-3%, oggi probabilmente basta l’1,5%-2%. Il che significa che il più zero virgola espande il PIL ma continua a produrre l’aumento della disoccupazione. L’Italia nella migliore delle ipotesi oggi è in questa situazione, quindi la recessione non è affatto finita (dal punto di vista dell’occupazione).

Ma ancora più importante, e più grave, è che tutte le economie occidentali – nel loro complesso – sono in depressione.

Depressione è quando l’economia cade in una situazione permanente di forte sottoutilizzo della sue capacità produttiva, quindi di disoccupazione alta e continua.

E’ la tipica situazione che si verifica dopo lo scoppio di una grande bolla speculativa: come avvenuto nel 1929 e nel 2008.

La crisi di fiducia e l’eccesso di indebitamento (privato, non pubblico) è tale che anche se le banche centrali portano i tassi sostanzialmente a zero, la domanda non riparte. Occorre un intervento dello stato per produrre un recupero della domanda sufficiente a risolvere la depressione.

Gli USA non sono ancora usciti dalla depressione: il PIL ha ripreso a crescere e la disoccupazione sta scendendo (quindi la recessione è finita) ma è ancora ben superiore ai livelli pre-crisi, e la banca centrale è tuttora lontana dal momento in cui potrà riportare i tassi d’interesse a livelli normali (anzi sta continuando ad effettuare massicce azioni di quantitative easing, anche se ha da poco annunciato che ne ridurrà, molto gradualmente, l’intensità).

Il Regno Unito è grosso modo nella stessa situazione (un po’ peggio).

Sconforta parlare dell’Eurozona: qui, “grazie” alle politiche di austerità avviate da metà 2011 in poi, abbiamo recessione e depressione insieme.

Bene (si fa per dire). Torniamo a quanto dice Krugman. Molto semplicemente, nota in questo recente articolo che i datori di lavoro, le grandi aziende statunitensi, non sembrano animate da una gran fretta di mettere velocemente termine alla depressione. Anzi: “potete facilmente radunare una folta schiera di prestigiosi CEO per sottoscrivere un documento che chieda di “Sistemare il Debito Pubblico”; non combinate nulla se il messaggio è “Sistemare l’Economia”” (vale a dire l’occupazione).

Se tutto questo vi sembra illogico, cambierete idea dando un’occhiata ai dati su costo del lavoro e utili aziendali USA dal 2007 a oggi.
 
 

Quando la crisi è esplosa, a fine 2008, gli utili sono calati molto più delle retribuzioni. E più veloce è stato il recupero quando si è iniziato a risalire la china.

La remunerazione del capitale è più volatile di quella del lavoro, e questo è comprensibile. Il problema è un altro: oggi le retribuzioni USA sono più alte del 10% rispetto al 2007. Gli utili, del 60%.

In un’economia ancora depressa, con disoccupazione tuttora decisamente elevata, le aziende hanno beneficiato di una dinamica salariale molto contenuta. E il 60% di crescita degli utili in sei anni non è, diciamo, una cosa che faccia sentire i datori di lavoro particolarmente insoddisfatti.

Krugman nota che anche con un’economia che non sta viaggiando alla sua normale velocità di crociera, dal punto di vista delle aziende mantenere livelli di attività più bassi del potenziale è compensato dalla maggiore forza contrattuale con i dipendenti: quindi retribuzioni più basse. Completamente compensato ? difficile da dire, ma di sicuro le aziende non soffrono di grandi problemi per lo stato “moderatamente depresso” dell’economia.

Ma c’è dell’altro, e ancora una volta i grandi del passato hanno parecchio da insegnare. Basta leggere che cosa diceva nel 1942 Michal Kalecki, in un articolo (la trascrizione di una conferenza, in effetti) tutto da leggere e meditare, “Political Aspects of Full Employment”:

“Chiaramente, una maggior produzione e occupazione beneficia non solo i lavoratori ma anche gli imprenditori, in quando genera maggiori livelli di profitti”. Ma senza nemmeno toccare il punto dei minori costi di lavoro che compensano gli effetti sugli utili di un’attività (moderatamente) depressa, ci sono altri temi più politici che economici, che spingono gli imprenditori a non provare un grande entusiasmo per il pieno impiego. Kalecki li sintetizza così:

“L’attitudine negativa verso l’interferenza governativa in quanto tale, riguardo al problema dell’occupazione. L’attitudine negativa verso la direzione dell’intervento governativo (investimenti pubblici e sovvenzioni al consumo). L’attitudine negativa verso i cambiamenti politici e sociali derivanti dal mantenimento del pieno impiego”.

Pur notando che “una solida maggioranza di economisti è oggi del parere che, anche in un sistema capitalistico, il pieno impiego possa essere assicurato da un adeguato programma di spesa governativa”, Kalecki era meno ottimista di Keynes. Che fosse possibile, era chiaro a entrambi. Che, avendo compreso come ottenere il pieno impiego, le classi dirigenti avrebbero agito in modo da mantenerlo in modo permanente, era un’altra questione.

Da cinque anni in qua, il mondo occidentale sta dando molte ragioni allo scetticismo di Kalecki, ben poche all’ottimismo di Keynes.

Specialmente in Europa.

Speriamo ancora per poco.

domenica 29 dicembre 2013

Spagna, Italia, e il (solito) equivoco sul debito pubblico


Maurizio Gustinicchi illustra qui benissimo che la presunta ripresa dell’economia spagnola (presunta in quanto i dati macroeconomici 2013 sono di forte calo del PIL reale, un po’ meno disastroso di quello italiano, ma forte calo comunque) è in realtà tutta dovuta al fatto che la UE ha consentito un grosso sforamento del vincolo del 3% (relativo al rapporto deficit pubblico / PIL).

Vincolo al cui rispetto l’Italia è stata invece “millimetricamente” inchiodata.

Ritengo tuttavia utile commentare il cappello che il blog “Rischio Calcolato” mette in testa all’articolo, in particolare dove dice:

“La differenza tra Spagna e Italia è che loro il jolly dell’aumento debito / PIL se lo possono ancora giocare (sono sotto il 90%), noi ce lo siamo già giocato dai tempi di Craxi, Andreotti e Forlani”.

L’affermazione lascia intendere che lo sforamento è stato consentito alla Spagna (ma anche all’Irlanda, e in misura minore alla Francia) e non a noi perché il debito / PIL italiano è più alto (oltre il 130%, ormai).

Bene, può darsi che queste siano stata effettivamente le motivazioni di quanto stabilito dalle menti illuminate di Bruxelles. Ma se è così sono basate su analisi completamente sbagliate.

Se all’Italia fosse stato consentito un deficit / PIL più alto, per esempio di cinque punti percentuali (8% invece di 3%), il PIL italiano 2013 sarebbe stato nettamente più elevato.

Ipotizziamo che cinque punti di deficit in più (quindi di maggiore spesa pubblica al netto di minori tasse) si fossero tradotti in cinque punti di maggior PIL.

E’ un’ipotesi con ogni probabilità cautelativa, perché non tiene conto che, partendo da una situazione depressa, lo stimolo dato dal maggior deficit si traduce in una crescita di domanda e PIL in rapporto maggiore di 1:1. E nemmeno che il maggior PIL produce maggiori incassi fiscali, che a loro volta limitano l’incremento del deficit.

E’ anche vero, d’altra parte, che maggior domanda interna implica maggiori importazioni, che in parte riducono il beneficio sul PIL. Qui peraltro si sarebbe potuto senza difficoltà compensare l’effetto, destinando una parte delle risorse liberate dall’allentamento del vincolo deficit / PIL alla riduzione delle imposte sui costi di lavoro sostenuti dalle aziende (quindi del cuneo fiscale). Ottenendo così un almeno parziale riallineamento della competitività italiana rispetto a quella nordeuropea (tedesca in particolare).

Ma stiamo sul semplice. Diciamo maggior deficit = maggior PIL in rapporto 1:1.

Vediamo i risultati. Questi sono i dati 2013, ormai praticamente finali, per l’Italia.


PIL

 

1.557

Deficit pubblico

47

Deficit / PIL

3,0%

Debito pubblico

2.031

Debito / PIL

 

130,4%

 
E questa è la situazione, sulla base dell’ipotesi di maggior deficit che si converte 1:1 in maggior PIL, con un deficit pubblico dell’8%.
 


PIL

 

1.642

Deficit pubblico

131

Deficit / PIL

8,0%

Debito pubblico

2.116

Debito / PIL

 

128,9%

 
Sono 85 miliardi di maggior PIL. Vuol dire che invece di un calo di quasi il 2% il PIL italiano avrebbe avuto una crescita superiore al 3% (altro che il -1,3% spagnolo).

E il rapporto debito / PIL ? sarebbe stato più basso.

E’ difficile da capire tutto questo ? per il governo italiano pare di sì. Giusto l’altro ieri sentivo Emma Bonino (europeista di ferro, com’è noto) dire alla radio “d’altra parte il primo problema è il debito, il debito l’abbiamo fatto noi, non possiamo incolpare nessun altro”.

Ho cambiato canale.

Non senza ricordare che il 4 gennaio 1933 (non il 27 dicembre 2013) un signore di nome John Maynard Keynes (non Emma Bonino) pronunciava alla radio inglese (non italiana) queste parole:

“Non si potrà mai equilibrare il bilancio attraverso misure che riducono il reddito nazionale. Il ministro delle finanze non farebbe altro che inseguire la sua stessa coda. La sola speranza di equilibrare il bilancio in modo stabile e permanente passa dall’evitare l’enorme aggravio dovuto alla disoccupazione. Per questo sostengo che, anche nel caso in cui si prenda il bilancio pubblico come unico metro di giudizio, il criterio principale per giudicare se le politiche siano state o no un successo, è lo stato dell’occupazione”.

Oh, nel 1933 il debito pubblico del Regno Unito era pari a circa il 180% del PIL.

Senza contare che in una situazione di domanda pesantemente depressa, il maggior deficit potrebbe essere finanziato non da debito, ma da maggiore emissione di moneta – senza rischi di inflazione.

E, ancora, senza contare che una politica monetaria espansiva può essere attuata selettivamente anche nell’eurozona, dove serve in misura diversa (molto in alcuni paesi, meno in altri e per nulla in altri ancora), se si identificano gli strumenti adeguati.

Ma naturalmente Olli Rehn, ex scadente calciatore convertitosi in catastrofico commissario UE, mesi fa ha utilizzato le sue capacità di medium per farci sapere che “oggi nemmeno Keynes sarebbe un keynesiano”.
 
Nella migliore delle ipotesi, siamo nelle mani di un branco di incompetenti.

venerdì 27 dicembre 2013

Euroexit con o senza breakup ?


Provo a rispiegare, ancora una volta…

L’ho già detto tempo addietro: se a un certo punto ci sarà la possibilità di schiacciare il pulsante che attiverà il breakup dell’euro, non sarò certo io (nel remotissimo caso che ne avessi la possibilità…) a oppormi !

Tuttavia caldeggio una via diversa di soluzione dei problemi del sistema monetario europeo, un approccio morbido (o riformista che dir si voglia).

Nei suoi effetti finali, la via morbida è totalmente equivalente al breakup. L’ho spiegato qui, qui e in tante altre sedi. E sono sempre a piena disposizione per chiarire qualsiasi dubbio di natura tecnica a chi, legittimamente, non ne è ancora convinto.

Ma quello che mi preoccupa, riguardo al breakup, è soprattutto la difficoltà di acquisire il consenso maggioritario della pubblica opinione e di superare i fortissimi interessi che vi si appongono.

Spaccare l’euro implica che l’Italia (e gli altri paesi mediterranei dell’eurozona) si ritroveranno ad adottare monete che saranno oggetto di svalutazione. Mentre la Germania ed altri paesi dell’ex area marco si verificherà il fenomeno contrario.

Per i “nord-eurozonici” ci sono due problemi: (1) immediata perdita di competitività e (2) svalutazione dei crediti detenuti nei confronti dei paesi mediterranei.

E’ un problema loro, certo, non nostro. Ma lo diventa nel momento in cui li spinge, per esempio, a esercitare forti pressioni e ad agevolare campagne di informazione (o disinformazione) ostili al cambiamento. E stiamo constatando che non è teoria, è quanto sta avvenendo.

Poi ci sono i problemi che preoccupano direttamente anche i cittadini italiani: (a) svalutazione che alimenta inflazione, quindi perdita di potere d'acquisto di retribuzioni, pensioni e risparmio, quindi (b) necessità di predisporre meccanismi di indicizzazione, che potrebbero tuttavia alimentare una spirale salari-prezzi simile a quella che si è verificata ai tempi delle crisi petrolifere (c) turbolenze nei mercati finanziari e nel sistema bancario.

Ora, la mia opinione è che la traslazione da svalutazione a inflazione non solo sarebbe molto meno che proporzionale, ma potrebbe addirittura non verificarsi per nulla.

E le turbolenze in corrispondenza del breakup potrebbero anche non esserci (qui, tuttavia, ho opinioni meno forti).

Ma che questi timori siano tanto o poco giustificati, il problema di base è che ESISTONO.

Che cosa ne segue riguardo all’attitudine della pubblica opinione ?

Non so a voi, ma a me appare evidente che il pubblico è diviso in tre blocchi. Credo, grosso modo, di dimensioni simili, e sicuramente tutti e tre consistenti.

Quelli che dall’euro uscirebbero domattina.

Quelli che capiscono che qualcosa non va, ma sono spaventati dalla transizione.

E gli irriducibili, che non ritengono necessario modificare il sistema monetario.

Ora, un cambiamento così importante mi sembra molto difficile da attuare senza il supporto di una parte largamente maggioritaria della pubblica opinione.

E senza convincere il secondo gruppo, i “consapevoli ma spaventati”, temo proprio che NON ci si arrivi. O de minimis che i tempi siano molto più lunghi.

martedì 24 dicembre 2013

La riforma morbida del sistema monetario europeo

Slides per futuri convegni (prima bozza)





Che cosa non funziona nell’attuale sistema monetario europeo
 
 
Manca un meccanismo di aggiustamento delle differenze di competitività

I paesi più competitivi accumulano surplus commerciali e crediti finanziari, gli altri deficit e debiti.

Manca uno stabilizzatore, quale in passato erano i cambi flessibili.

L’austerità azzera i deficit commerciali dei paesi meno competitivi ma li manda in depressione economica.

 

Le politiche monetarie non supportano le azioni anticicliche necessarie quando l’economia cade in depressione

A seguito di una crisi finanziaria (Lehman 2008) tutte le economie occidentali hanno subito una pesante caduta della domanda. Un recupero in tempi ragionevoli richiedeva una forte azione pubblica di sostegno.

Ma nell’Eurozona dopo il 2009 in poi queste azioni si sono bloccate perché servivano molto più al Sud che al Nord, e i “settentrionali” non volevano emettere moneta per finanziare il sostegno della domanda, e neanche che il Sud espandesse i deficit pubblici.

 

I debiti pubblici sono diventati debiti in moneta straniera

Quindi hanno un rischio di default, che il debito pubblico denominato in moneta sovrana non ha.

USA, UK e Giappone hanno potuto aumentare deficit e debito pubblico e i tassi sono rimasti sostanzialmente a zero.






“Diamo una spallata” ? le difficoltà del break-up
 


I paesi settentrionali dell’eurozona subiscono un’immediata perdita di competitività.

 

I creditori subiscono una perdita di valore.

 

Timori dei risparmiatori italiani per la perdita di valore di titoli e depositi bancari.

 

Timori delle categorie a reddito fisso per la perdita di valore di retribuzioni e pensioni.

 

Quindi necessità di indicizzazioni: timori di spirale prezzi-salari.

 

Timori per la stabilità del sistema bancario (bank-runs).

 

Confusione e contenziosi legali in seguito alle ridenominazione di crediti e debiti, possibili insolvenze di banche e aziende.

 

 

===> Molti di questi timori sono più psicologici che reali ma…

 

…sicuramente il break-up è un processo fattibile ma complicato.

 

Molto difficile ottenere un ampio consenso di pubblica opinione.

 

Forti interessi costituiti sono violentemente contrari.







La riforma morbida (CCF e Mosler Bonds): c’è una porta aperta sul retro

 

Riappropriarsi del potere di emettere moneta.

 

Certificati di Credito Fiscale: moneta a impiego differito, utilizzabile due anni dopo l’assegnazione per pagare tasse e ogni altra obbligazione finanziaria nei confronti della pubblica amministrazione.

 

Assegnazioni annue per 200 miliardi circa ad aziende, lavoratori e finanziamento di spesa pubblica.

 

Quota assegnata ad aziende (circa 80) abbassa il costo del lavoro effettivo e riallinea la competitività italiana a quella tedesca.

 

Riavvio immediato di domanda e crescita, recupero del pieno impiego in pochi anni.

 

Nel frattempo, non si emettono più titoli di debito pubblico ma Mosler Bonds.

 

Mosler Bonds = Tax-Backed Bonds: titoli che alla scadenza sono utilizzabili per pagamenti verso lo Stato.

 

I Mosler Bonds per definizione NON hanno rischio di default (non sono, in effetti, debito pubblico, ma una forma di moneta – come i CCF).

 

Rapida riduzione del debito pubblico italiano a rischio di default (cioè del debito che è effettivamente tale) ===> a ritmo anche più accelerato di quanto previsto dal fiscal compact.






La riforma morbida: operativamente e politicamente molto più agevole del break-up

 

Non c’è bisogno di agire di sorpresa.

 

Nessuna conversione valutaria di crediti, debiti, contratti, retribuzioni, pensioni.

 

Nessuna incompatibilità con i trattati.

 

Va attuata senza farne mistero, ma senza chiedere “autorizzazioni” a nessuno.

 

Ogni stato in difficoltà dell’eurozona può applicarla in misura e con caratteristiche adattate al suo contesto specifico.










 


Marco Cattaneo / Giovanni Zibordi

“Una soluzione per l’euro: gli strumenti per rimettere in moto l’economia italiana”

Prefazione di Warren Mosler

Introduzione di Biagio Bossone

In pubblicazione presso Hoepli Editore, 2014

giovedì 19 dicembre 2013

La svalutazione non serve ? il caso Giappone


Sugli effetti della svalutazione, si continua a fare parecchia confusione.

Ogni volta che un paese svaluta e dopo un certo periodo di tempo si constata che non c’è stato un miglioramento dei saldi commerciali con l’estero, invariabilmente qualcuno commenta che “la svalutazione è inutile”.

Il punto è che l’evoluzione dei saldi commerciali non risente solo della svalutazione. Un altro importantissimo fattore è l’evoluzione della congiuntura nel paese che svaluta, in termini relativi (cioè rispetto ai suoi partner commerciali).

Si era vista la combinazione di questi due fattori all’opera nel caso del Regno Unito. Vediamo ora che cosa sta accadendo in Giappone.

Il saldo delle partite correnti negli USA, nell’Eurozona e in Giappone si è evoluto nel modo seguente tra il 2012 e il 2013 (dati in miliardi di dollari, fonte FMI):


2012
2013
Usa
-440
-451
Eurozona
227
295
Giappone
60
61

 
Il saldo del Giappone è rimasto sostanzialmente invariato, come quello USA, mentre è aumentato nettamente quello dell’Eurozona. Questo, nonostante una svalutazione dello yen del 18% contro dollaro e del 21% contro euro.
Allora, la svalutazione non serve ? l’incremento maggiore l’ha avuto l’Eurozona, la cui moneta non si è svalutata ma addirittura rafforzata nei confronti dello yen e anche, leggermente, del dollaro.

Il mistero si svela facilmente se guardiamo al dato del PIL procapite. La prestazione migliore, in termini di variazione 2013 vs 2012, è nettamente quella del Giappone: +2,2%. Molto staccati gli USA a +0,8%. L’eurozona registra un pessimo -0,6%.

Il punto è che congiuntamente alla svalutazione, il Giappone ha effettuato forti azioni di rilancio della domanda, e il PIL è cresciuto. Senza la svalutazione, questo avrebbe creato sbilanci nei saldi commerciali esteri, che invece sono stati evitati. La svalutazione serve, eccome.

L’Eurozona invece ha incrementato l’attivo delle partite correnti, certo, ma per quale via ? distruzione della domanda interna in tutti i paesi mediterranei (come da “manuale Monti”), crollo delle importazioni e ulteriore caduta del PIL procapite (e dell’occupazione, e della coesione sociale, e della capacità di tenuta del sistema finanziario e bancario…)

Un paese che desidera ottenere una crescita del PIL e dell’occupazione, in termini sia assoluti che relativamente ai suoi partner commerciali, deve rilanciare la domanda: ma per evitare che gli effetti siano in buona parte vanificati dal peggioramento dei saldi esteri, occorre svalutare.
 
O in alternativa, effettuare un altro tipo di azione che analogamente ne migliori, con effetti immediati, la competitività. Quale ad esempio la diminuzione del carico fiscale sul lavoro prevista dal progetto CCF.

martedì 17 dicembre 2013

Euroexit e scala mobile


Partecipando all’incontro tenuto ieri con un gruppo di parlamentari M5S, Emiliano Brancaccio è tornato su un tema a cui (giustamente) attribuisce molta importanza.

Nel 1992, dopo la rottura dello SME, furono attuate politiche fiscali restrittive e rimossi gli ultimi elementi di indicizzazione dei salari ancora in vigore.

Anche grazie al fatto che si stava, contemporaneamente, verificando una significativa riduzione del prezzo del petrolio, l’inflazione non aumentò (anzi scese di circa un punto) nonostante la svalutazione della lira.

Le politiche fiscali restrittive protrassero la recessione per buona parte del 1993; l’inversione della congiuntura fu poi ottenuta grazie all’effetto del calo dei tassi d’interesse e del miglioramento della bilancia commerciale.

Ci fu, tuttavia, una compressione della quota salari – una ripresa, argomenta Brancaccio, ottenuta a spese dei lavoratori: e questo deve essere evitato nell’ipotesi di break-up dell’euro e ritorno dell’Italia alla sua moneta nazionale.

L’obiettivo è totalmente da condividere. Tuttavia è utile riflettere sulla seguente affermazione di Brancaccio.

“Chi riesce a rassicurare i lavoratori dipendenti spaccherà il sistema e creerà una maggioranza anti-euro”.

Ora, tutelare le retribuzioni reali mediante un meccanismo di scala mobile, di indicizzazione, che le protegga dall’eventuale effetto inflattivo di un break-up, naturalmente è possibile. Ma non si può rassicurare nessuno annunciandolo in anticipo, perché il break-up deve essere effettuato di sorpresa: è lo stesso problema che impedisce di effettuare l’”euroexit” mediante una “spaccatura” della moneta unica europea deliberata in conseguenza di un referendum.

Un altro punto a favore dell’euroexit attuata mediante introduzione dei Certificati di Credito Fiscale: che può, al contrario, essere discussa e attuata alla luce del sole, in perfetta trasparenza.

E che peraltro comporta immediatamente un notevole miglioramento dei salari reali netti (dato che una parte significativa delle assegnazioni di CCF sono destinate a integrare il reddito dei lavoratori).