martedì 30 aprile 2013

Prima bozza della proposta di legge - Certificati di Credito Fiscale


Proposta di legge n. [……] / 2013

Disposizioni in materia di emissione, negoziazione e utilizzo dei Certificati di Credito Fiscale (nel seguito, in forma abbreviata, CCF)

 

Articolo 1

I CCF sono titoli utilizzabili dal loro possessore, nei termini temporali di cui al successivo articolo 7, per estinguere qualsiasi forma di obbligazione finanziaria nei confronti della pubblica amministrazione (come definita al successivo articolo 2).

 

Articolo 2


La pubblica amministrazione, per quanto attiene alla presente legge, è composta da:

a) le amministrazioni dello Stato, che includono la presidenza del consiglio dei ministri, i ministeri, le istituzioni scolastiche, le agenzie (inclusa l’agenzia delle entrate) e le amministrazioni autonome;

b) l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale e gli enti previdenziali pubblici in genere;

c) Equitalia SpA, le sue controllate e tutte le società, enti e organizzazioni che svolgano attività di riscossione di imposte e tributi per conto della pubblica amministrazione;

d) le autorità amministrative indipendenti;

e) le regioni, le province, i comuni e gli altri enti territoriali locali;

f) gli altri enti pubblici, nazionali e locali, tra cui le istituzioni universitarie, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e gli enti che compongono il servizio sanitario nazionale.


 
Articolo 3

I CCF sono attribuiti a tutti i lavoratori ai quali venga erogata una retribuzione risultante da un prospetto di paga come definito dalla legge 5 gennaio 1953 numero 4 e successive estensioni e modificazioni. La misura dell’attribuzione di CCF è così determinata:

·        la retribuzione erogata, al netto di imposte, contributi e altre ritenute di legge, così come rilevabile da ciascun prospetto di paga, viene rapportata a un periodo di dodici mesi.

·        Vengono attribuiti CCF in misura pari al 23% della retribuzione netta erogata fino a concorrenza di euro 12.500 su base annua; più il 14% della retribuzione netta erogata sullo scaglione compreso tra euro 12.500 ed euro 20.000 su base annua; più il 5% della retribuzione netta erogata sullo scaglione compreso tra euro 20.000 ed euro 42.500 su base annua.

 

Articolo 4

I CCF sono altresì attribuiti a tutte le imprese che agiscono in qualità di datore di lavoro, ad eccezione di quelle appartenenti alla pubblica amministrazione, e che corrispondano ai lavoratori una retribuzione che risulti da un prospetto di paga come definito dalla legge 5 gennaio 1953 numero 4 e successive estensioni e modificazioni. L’attribuzione dei CCF ai datori di lavoro avviene in misura così determinata:

·        la retribuzione erogata ad ogni singolo lavoratore, al netto di imposte, contributi e altre ritenute di legge, viene rapportata a un periodo di dodici mesi, e moltiplicata per un fattore di 2,25 al fine di determinare la retribuzione lorda convenzionale.

·        Vengono attribuiti CCF in misura pari al 23% della retribuzione lorda convenzionale fino a concorrenza di euro 28.125 su base annua; al 14% della retribuzione lorda convenzionale erogata sullo scaglione compreso tra euro 28.125 ed euro 45.000 su base annua; e al 5% della retribuzione lorda convenzionale erogata sullo scaglione compreso tra euro 45.000 ed euro 95.625 su base annua.

 

Articolo 5

I CCF sono altresì attribuiti a tutti lavoratori che percepiscano redditi da lavoro autonomo così come definiti e disciplinati dal Capo V, Artt. 53 e 54, D.P.R. 22 dicembre 1986. L’attribuzione dei CCF ai lavoratori autonomi avviene in misura così determinata:

·        Viene rilevato, per ogni singolo periodo d’imposta, il reddito da lavoro autonomo imponibile ai fini fiscali.

·        Vengono attribuiti CCF in misura pari all’11,5% del reddito da lavoro autonomo imponibile ai fini fiscali fino a concorrenza di euro 28.125; al 7% dello scaglione compreso tra euro 28.125 ed euro 45.000; e al 2,5% dello scaglione compreso tra euro 45.000 ed euro 95.625.

 

Articolo 6

I CCF attribuiti non concorrono, in alcun caso, a formare il reddito imponibile a fini fiscali o contributivi del soggetto assegnatario.

 

Articolo 7

Si definisce “Data di Validità” l’ultimo giorno del mese in cui i CCF vengono attribuiti al soggetto assegnatario. Qualsiasi obbligazione di natura finanziaria nei confronti della pubblica amministrazione, come definita al precedente articolo 2, è automaticamente estinta mediante compensazione con un pari importo di CCF di proprietà del soggetto obbligato, a condizione che la sopra accennata operazione di compensazione abbia luogo mediante utilizzo di CCF la cui Data di Validità sia almeno di due anni precedente all’effettuazione dell’operazione di compensazione medesima.

La sopra accennata operazione di compensazione può essere validamente effettuata non solo dal soggetto originariamente assegnatario dei CCF, ma anche da qualsiasi altro soggetto che li abbia nel frattempo acquistati.

 

Articolo 8

L’attribuzione dei CCF avviene mediante accredito di un apposito conto titoli aperto dall’assegnatario presso un istituto di credito o altro soggetto autorizzato alla raccolta del risparmio, ai sensi del decreto legislativo numero 385 dell’1.9.1993 (Testo Unico Bancario) e successive modifiche.

Per i soggetti aventi diritto all’attribuzione dei CCF ai sensi dei precedenti articoli 3 e 4, l’attribuzione avviene al momento della presentazione, presso l’istituto o soggetto a ciò deputato, del prospetto di paga come definito dalla legge 5 gennaio 1953 numero 4 e successive estensioni e modificazioni. La presentazione può anche validamente avvenire in forma telematica e il soggetto deputato all’attribuzione dei CCF può essere il medesimo a cui è (eventualmente) delegata la corresponsione della retribuzione al lavoratore.

Per i soggetti aventi diritto all’attribuzione dei CCF ai sensi del precedente articolo 5, l’attribuzione avviene al momento della presentazione, presso l’istituto o soggetto a ciò deputato, della dichiarazione dei redditi da cui risulti un reddito di lavoro autonomo come definito e disciplinato dal Capo V, Artt. 53 e 54, D.P.R. 22 dicembre 1986.

 

Articolo 9

La responsabilità della corretta determinazione e della corretta effettuazione delle operazioni finalizzate all’attribuzione di CCF ai sensi dei precedenti articoli 3 e 4 compete al datore di lavoro.

La responsabilità della corretta determinazione e della corretta effettuazione delle operazioni finalizzate all’attribuzione di CCF ai sensi del precedente articolo 5 compete al lavoratore autonomo.

 

Articolo 10

I CCF sono liberamente e pienamente negoziabili e trasferibili.

E’ istituito un mercato telematico dei CCF, disciplinato dal Ministero dell’Economia e sottoposto alla supervisione della Banca d’Italia e della Consob.

mercoledì 24 aprile 2013

Riprogettare il meccanismo

Cito da Wikipedia: “Il rapporto di trasmissione è un parametro utilizzato in meccanica per caratterizzare come il movimento si trasferisce da una ruota dentata ad un'altra in un ingranaggio… In meccanica l'uso di riduttori meccanici è molto più frequente rispetto all'uso di moltiplicatori, dato che per natura i motori mantengono regimi di rotazione elevati. Un esempio pratico del rapporto di trasmissione è il cambio della bicicletta. Spostando la catena su una ruota dentata più piccola l'avanzamento diventa più veloce, ma si fa più fatica a spingere sui pedali. Con una ruota dentata piccola sul mozzo anteriore e una grande sul mozzo posteriore invece la velocità è ridotta, ma la coppia permette di superare salite maggiori con meno sforzo. Nelle auto, agendo sulle marce si varia il rapporto di trasmissione tra l'albero motore e l'asse di trazione.”

Fermi tutti, non si parlava di economia in questo blog ? di crisi dell’euro ? di soluzioni possibili, e di temi politici connessi ?

Certo. Ma se ho chiamato in causa l’ingegneria, è per chiarire che la crisi dell’euro è la conseguenza di un meccanismo mal progettato.

L’eurozona è formata da diciassette paesi, ognuno dei quali ha le sue dinamiche, le sue caratteristiche, le sue competenze produttive, i suoi livelli più o meno alti di sviluppo economico.

Tra le tante differenze, una in particolare è all’origine dei problemi della moneta unica. La Germania e in generale i paesi della vecchia “area marco” sono in grado di contenere e regolare i costi di produzione, in particolare il costo del lavoro, evitando che aumentino molto più velocemente della produttività. E sono quindi caratterizzati da livelli di inflazione, di crescita di costi e prezzi, più contenuti rispetto ai paesi latini.

In genere questa è considerata una qualità dell’economia tedesca, anche se c’è chi fa notare che si traduce in livelli di retribuzioni più bassi di quanto il livello del sistema produttivo tedesco giustificherebbe.

Il punto però è un altro. Nell’epoca “ante euro”, ogni nazione aveva la sua moneta. I paesi caratterizzati da minori crescite dei costi di produzione rivalutavano gradualmente rispetto agli altri.

Questo migliorava la capacità di spesa del cittadino tedesco e gli consentiva di utilizzarla, in parte, per maggiori acquisti di prodotti dei loro partner commerciali, inclusi in primo luogo i vicini europei. In pratica l’efficienza produttiva tedesca si traduceva in capacità di spesa e propensione all’importazione.

I cambi flessibili erano, in pratica, un efficiente meccanismo di trasmissione che consentiva alle economie dei vari paesi europei di svilupparsi in modo sufficientemente armonico, senza particolari attriti.

La moneta unica, come è stato detto, scritto e argomentato infinite volte, prima e dopo la sua introduzione, è un sistema rigido. La rigidità non va confusa con la stabilità: una costruzione è stabile se ha la flessibilità per assorbire gli urti. Altrimenti rischia di spaccarsi.

Spesso si legge che l’euro, per alcuni anni dopo la sua introduzione, ha funzionato senza evidenziare particolari difficoltà. Il problema è che le dinamiche dei costi di produzione, in particolare la tendenza dei paesi “teutonici” a controllarli meglio degli altri, sono un fenomeno cumulativo. Il costo del lavoro per unità di prodotto in Germania è cresciuto, dal 1999 in poi, a un tasso annuo inferiore dell’1%-1,5% circa rispetto all’Italia. La differenza su un arco di tempo di due o tre anni si avverte poco. Dopo dieci e più anni, arriva all’attuale 20% cumulato.

Nel breve termine, la graduale perdita di competitività dei paesi latini è stata tra l’altro mascherata dal fatto che la Germania si è trovata con grossi surplus commerciali. Non essendo incentivata a utilizzarli per importare di più dal Sud Europa, i cui costi di produzione erano poco competitivi, li ha “riciclati” in finanziamenti. In pratica ha prestato al Sud i soldi per comprare i suoi prodotti.

Oggi l’economia europea è un macchinario in cui alcuni ingranaggi (la Germania) girano ad alta velocità, altri (la Grecia) a velocità più bassa, altri ancora (l’Italia) a un livello intermedio. Dall’inizio della crisi, i politici europei continuano a ripetere che la soluzione passa attraverso “ambiziose riforme strutturali” che dovrebbero portare tutti gli ingranaggi al regime di quello più veloce (la Germania). In pratica queste riforme consistono nel ridurre il costo del lavoro dei paesi in difficoltà: non esistono processi di riorganizzazione o di innovazione tecnologica che possano, di colpo, migliorare del 20% la produttività di un intero paese.

Ma questo riduce la capacità di spesa e di conseguenza l’attività produttiva del Sud Europa. Anche perché il Nord ha un altro problema: come visto prima, ha finanziato, accumulato crediti verso il Sud. Di conseguenza ha imposto politiche di rientro che si sono tradotte in manovre fiscali restrittive (tasse e tagli di spesa pubblica).

Tutto questo ha alimentato un terribile circolo vizioso: austerità fiscale, minore potere d’acquisto dei cittadini, caduta della produzione, mancato beneficio sul debito pubblico il cui rapporto rispetto al PIL aumenta invece di diminuire. Il tutto rafforzato dal blocco del credito: le banche hanno sempre meno possibilità di finanziare aziende e privati quando i posti di lavoro sono sempre più precari, i redditi in caduta, i valori immobiliari in discesa eccetera.

Il meccanismo è progettato male, e la crisi è stata affrontata sulla base di diagnosi, e quindi con modalità, sbagliate.

Occorre ricreare flessibilità all’interno del sistema monetario europeo. I cambi flessibili erano un tipo di “riduttore” che consentiva la trasmissione del movimento, all’interno della macchina Europa, in modo sufficientemente armonico.

Tornare ai cambi flessibili abbandonando l’euro è una strada. Se ogni nazione adotta, di nuovo, la sua moneta, i paesi meno competitivi svalutano e compensano la differenza di costi produttivi che si è generata dal 1999 a oggi.

Qualsiasi alternativa deve ottenere un effetto analogo: riequilibrare i livelli di costi per unità di prodotto, senza però abbattere i redditi e la capacità di spesa di nessuno.

Il progetto Certificati di Credito Fiscale ha queste caratteristiche.

domenica 21 aprile 2013

Previsioni macroeconomiche: un aggiornamento…

… rispetto a quelle riportate nel post del 21.2.2013.

Lo scenario “senza CCF” è quello del Documento di Economia e Finanza, ultima versione elaborata dal Ministero dell’Economia (MEF) a marzo 2013.

Nello scenario “con CCF” l’emissione totale annua di Certificati di Credito Fiscale, che inizia in data 1.1.2014, è stata incrementata da 150 a 200 miliardi. Rimane pari a 150 l’intervento destinato alla riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, mentre si prevede di destinare gli altri 50 ad altre forme di sostegno della domanda (eliminazione degli effetti di tagli alla spesa pubblica, sostegno ai redditi di categorie disagiate, parziale pagamento di debiti delle pubbliche amministrazioni alle aziende eccetera).

E’ possibile incrementare di 50 miliardi la dimensione dell’intervento, senza significativi impatti sull’inflazione, in quanto il declino del PIL previsto per il 2013 produce un ulteriore aumento dell’”output gap”, cioè della differenza tra PIL effettivo e PIL “di piena occupazione” – e fino a che il gap non è, almeno in buona parte, recuperato le azioni di sostegno della domanda non producono significative tensioni sul livello generale dei prezzi.

Rimane l’ipotesi che i CCF emessi producano un’espansione del PIL pari a 1,3 volte l’importo, 1,3 essendo il valore medio dell’intervallo (0,9 – 1,7) recentemente ipotizzato dal Fondo Monetario Internazionale per il cosiddetto “moltiplicatore keynesiano”.

Rimane anche l’ipotesi prudenziale che l’effetto espansivo sul PIL si distribuisca su tre anni, quindi tra il 2014 e il 2016.


SENZA CCF
 
 
2013
2014
2015
2016
2017
Prodotto Interno Lordo
1.573
1.611
1.667
1.720
1.778
Crescita reale PIL
-1,3%
0,5%
1,5%
1,3%
1,4%
Effetto prezzi su crescita PIL
1,8%
1,9%
1,9%
1,9%
1,9%
Debito pubblico / PIL
130,4%
129,0%
125,5%
121,4%
117,3%
Deficit pubblico / PIL
-4,0%
-1,7%
-0,8%
0,2%
0,2%
Tasso di disoccupazione a fine anno
12,4%
12,8%
12,8%
12,9%
12,9%
CON CCF
 
 
 
2013
2014
2015
2016
2017
Prodotto Interno Lordo
1.573
1.700
1.853
2.017
2.084
Crescita reale PIL
-1,3%
6,0%
7,0%
6,8%
1,4%
Effetto prezzi su crescita PIL
1,8%
1,9%
1,9%
1,9%
1,9%
Debito pubblico / PIL
130,4%
119,8%
105,8%
99,9%
99,2%
Deficit pubblico / PIL
-4,0%
0,9%
4,1%
-2,8%
-2,5%
Tasso di disoccupazione a fine anno
12,4%
10,7%
8,4%
6,1%
6,2%

 
Va notato che la previsione “senza CCF”, quella cioè recentemente presentata dal governo, NON prevede alcuna riduzione della disoccupazione rispetto agli attuali altissimi livelli. A partire dal 2014 si dovrebbe verificare un modesto ritorno alla crescita, insufficiente però a riassorbire l’”output gap” e quindi la disoccupazione.

Gli unici dati positivi della previsione MEF sono il raggiungimento, dal 2015, del pareggio di bilancio e di conseguenza il declino del rapporto debito pubblico / PIL, dal 130% di fine 2013 al 117% circa nel 2017.

Lo scenario “con CCF” implica invece l’abbattimento della disoccupazione a poco più del 6% (contro 13% circa) e la riduzione del rapporto debito pubblico / PIL sotto il 100% già nel 2016.

martedì 16 aprile 2013

Non c’è da esitare

Paul Krugman, ieri: "when can we all admit that the euro is a failure? The answer, of course, is never. Too much history, too many declarations, too much ego is invested in the single currency for those involved ever to admit that maybe they made a mistake. Even if the project ends in total disaster, they will insist that the euro didn’t fail Europe, Europe failed the euro".
 
"Quando ammetteremo tutti che l'euro è un fallimento? la risposta, naturalmente, è mai. Troppa storia, troppe dichiarazioni, troppo ego sono stati investiti da chi è coinvolto nel progetto moneta unica per ammettere che forse è stato un errore. Perfino se il progetto termina in un disastro totale, insisteranno che non è vero che l'euro non è risultato adeguato all'Europa: l'Europa non è risultata adeguata all'euro".

Che livello di disastro occorrerà perchè si verifichi la rottura dell’euro ? come evitare che ci si arrivi ?

Esiste una riforma MORBIDA che risolve i problemi strutturali dell'euro e permette perfino agli organi dell’Unione Europea, alla BCE, ai politici di salvare la faccia. Perché è una riforma, non è la scomparsa dell’euro. Le UE per prima, in effetti, ha disperato bisogno di una proposta come questa

Se (ad esempio) 163 parlamentari M5S che rappresentano il 25% dell'elettorato italiano la adottano come punto principale del loro programma economico, immediatamente ci sarà risonanza a livello mondiale, ne parleranno tutti i principali economisti mondiali, NESSUNO POTRA' PIU' IGNORARE CHE LA SOLUZIONE ESISTE.

lunedì 15 aprile 2013

Euroexit: possibili danni collaterali ? i CCF li evitano

Ho spiegato qui perché ritengo che la riforma “morbida” del sistema monetario europeo mediante introduzione dei Certificati di Credito Fiscale possa essere una via più facile da applicare rispetto all’uscita “secca” dall’euro, e perché possa anche risultare maggiormente accettabile dall’opinione pubblica italiana, dai mercati finanziari e dagli altri membri dell’eurozona.

In sintesi, al contrario dell’euroexit: non dobbiamo attuarla di sorpresa; non costringiamo la Germania a rivalutare; e non svalutiamo i crediti degli investitori internazionali (e neanche dei risparmiatori italiani).

C’è un ulteriore punto da considerare. Gli effetti dell’euroexit vengono generalmente esaminati e discussi avendo in mente soprattutto l’esperienza dell’uscita dell’Italia (e anche di altri paesi, tra cui Regno Unito e Spagna) dal sistema monetario europeo (SME) nel settembre 1992.

Si verificò una rapida svalutazione della lira nei confronti del marco tedesco, con un cambio che passò da 750 lire circa a oltre 1.200, per poi recuperare e assestarsi al livello (990) del 1998. Il 1° gennaio 1999 furono fissate le “parità irrevocabili” e costituito l’euro.

La svalutazione della lira contro marco fu quindi alla fine del 32%, superiore a quanto si stima avverrebbe oggi in caso di ritorno, sia dell’Italia che della Germania, a monete nazionali. Le ipotesi più accreditate, basate sulle dinamiche dei costi interni per unità di prodotto, prevedono un riallineamento del 20% circa.

E’ assolutamente vero che l’Italia nel 1992 ottenne un forte e rapido recupero dei saldi import-export, della produzione e dell’occupazione. Inoltre, non si verificò nessun incremento dell’inflazione, a riprova che l’impatto delle materie prime acquistate in valuta (tipicamente dollari) è modesto. Nessun rischio di fare la spesa con la carriola di banconote, di pagare un mese di stipendio per un litro di latte e amenità simili.

C’è però un tema un po’ più sottile da considerare. Aziende e istituzioni finanziarie italiane hanno una pluralità di rapporti di debito e credito con controparti estere, che nel 1992 erano in parte in lire e in parte in valuta estera.

Ogni operatore economico la cui attività non sia puramente domestica si preoccupa della sua bilancia valutaria, cioè di non rischiare conseguenze negative per effetto di un riallineamento dei cambi, o di contenerle entro livelli accettabili.

Si cerca quindi di avere attività in valuta per importi corrispondenti all’incirca a quelli delle passività nella stessa valuta (matching). Va anche tenuto conto che un’azienda esportatrice in caso di svalutazione avrà un beneficio dal conseguimento di maggiori flussi di cassa netti nella valuta in cui esporta. Questo rende appropriato, entro certi limiti, un maggior livello di passività denominate in quella valuta. Possono poi essere adottati strumenti di gestione del rischio di cambio, mediante vendite o acquisti a termine di valuta, opzioni eccetera.

Nel 1992 le aziende italiane sapevano che il cambio della lira poteva variare e si erano quindi preoccupate di gestire il rischio di cambio. Qualcuna l’aveva fatto bene, altre meno ma in definitiva la rottura dello SME fu assorbita senza traumi, appunto perché il rischio era ben delineato. Dalla svalutazione della lira in poi, quindi, l’effetto di gran lunga più importante fu il recupero di competitività delle aziende italiane, e non ci furono rilevanti “danni collaterali”.

Se oggi si verificasse l’euroexit italiana, la situazione è piuttosto diversa perché è meno chiaro che cosa succede alle varie categorie di attivi e di passivi. Generalmente si ritiene che i contratti stipulati sulla base del diritto italiano sarebbero automaticamente convertiti in nuove lire, e quelli di diritto internazionale invece rimarrebbero in euro. Ma quante aziende produttive e quante banche hanno effettuato una precisa gestione del loro rischio valutario avendo chiara questa distinzione ?

Tra l’altro non è chiaro come reagirebbero gli (ex) partner dell’eurozona. Per esempio un’azienda italiana ha debiti verso un fornitore tedesco e il contratto è di diritto italiano. A quel punto dice “ti pago in nuove lire” svalutate del 20%. Ma se l’azienda ha anche crediti verso clienti tedeschi, che cosa ipotizza ? che questi crediti rimarranno in euro ? o la Germania attuerà una misura di ritorsione (e protezione) delle sue aziende e pretenderà di pagare nuove lire e non euro ? Nel primo caso l’azienda italiana ha un vantaggio patrimoniale, nel secondo (se i crediti sono più alti dei debiti) un danno.

Credo che nessuna organizzazione abbia impostato una gestione del rischio di euroexit sulla base di questi ragionamenti. Anche perché gli scenari sono aleatori ed è prevedibile che nascano contenziosi legali.

E’ veramente difficile stimare quanto possa pesare questo elemento di alea, quanta confusione in più possa creare all’indomani dell’euroexit. E non mi risulta che siano state elaborate analisi in merito, riferite al complesso della situazione italiana o europea.

Così com’è oggi, il sistema euro sta producendo una profondissima crisi economica in mezza Europa. I possibili “danni collaterali” che ho descritto, per quanto difficili da stimare, sono di una dimensione sicuramente inferiore. Non costituiscono quindi una ragione per non attuare il break-up dell’euro, se non ci fossero alternative.

Però l’alternativa “morbida”, i Certificati di Credito Fiscale, esiste ed evita completamente questi “danni collaterali”. Un motivo in più per ritenerla molto, molto interessante.