sabato 30 agosto 2014

Non chiedere nulla alla Germania


Anche gli economisti e i commentatori più prestigiosi sono vittima di un grosso equivoco in merito all’eurocrisi. Ieri, un post di Paul Krugman me l’ha, una volta di più, ricordato.

Il punto chiave del post è l’affermazione contenuta alla fine del primo paragrafo: una soluzione è impossibile a meno che la Germania non accetti un tasso d’inflazione più elevato (rispetto all’Eurozona Sud).

Per soluzione, Krugman intende l’adozione di politiche macroeconomiche, nell’ambito dell’Eurozona, che rilancino PIL e occupazione, senza però riprodurre gli sbilanci di saldi commerciali che sono stati tamponati (dal 2011 in poi) solo a costo di pesantissime politiche di austerità e dell’esplosione della disoccupazione nei paesi mediterranei. Tutto questo, senza mettere in atto la “spaccatura” della moneta unica e il ritorno alle monete nazionali.

I paesi mediterranei sono meno competitivi della Germania. Quindi – l’hanno fatto notare in molti – se attuano un’azione espansiva della domanda, buona parte andrà ad aumentare le importazioni e non la produzione interna. L’effetto di ripresa di PIL e occupazione sarà quindi modesto, si creeranno problemi di deficit commerciale e riprenderà a salirà il debito del Sud Europa verso l’estero.

Se “spacchiamo” l’euro, le monete del Sud si svaluteranno rispetto alla moneta tedesca e questo problema verrà evitato. Se invece vogliamo evitare il breakup, dice Krugman, l’unica possibilità è che prezzi e, soprattutto, salari crescano più velocemente in Germania rispetto al Sud. Oggi c’è una differenza di costo del lavoro per unità di prodotto stimata nel 20% circa. Per recuperare questa differenza in un periodo di tempo non lunghissimo (ma neanche breve – qualcosa tipo cinque anni) serve un’inflazione salariale, in Germania, parecchio più alta rispetto al Sud: per esempio 5% annuo contro 1%.

Ora, Krugman sbaglia nel dire che questa è la sola soluzione della crisi che evita il breakup della moneta unica. C’è un’altra strada, che tra l’altro non richiede anni per completare l’aggiustamento della competitività tra Sud e Germania ma ha, al contrario, effetti IMMEDIATI: permettere ai paesi dell’Eurozona mediterranea una grossa azione espansiva, e utilizzare una parte significativa di questa azione per ridurre il costo del lavoro che grava sulle aziende (in particolare, con forti sgravi di tasse e contributi).

E questo può essere fatto in due modi: o, semplicemente, l’Eurozona Sud innalza i deficit, abbassa le tasse sul lavoro e la BCE continua, di fatto (come sta facendo già oggi) a garantire la solvibilità degli stati.

Oppure, l’Eurozona Sud introduce monete parallele all’euro, quali i Certificati di Credito Fiscale, e le utilizza per finanziare le azioni espansive e di riallineamento della competitività - come delineato nella Riforma Morbida.

Quindi sbaglia chi dice che, tecnicamente, non c’è soluzione alla crisi senza breakup dell’euro. Ma sbaglia anche Krugman nell’indicare come senza alternative una strada (una più alta crescita di prezzi e salari in Germania) che, oltre a non essere la sola, è anche lenta e inefficiente.

Questo è un punto estremamente importante. Lo sto continuamente ripetendo da quando ho cominciato a proporre la Riforma Morbida e sono, sinceramente, molto stupito da quanto sia difficile farlo comprendere. L’obiezione che espandere la domanda senza svalutare non funziona (perché squilibra i saldi commerciali dei paesi meno competitivi) mi viene sollevata da tantissimi interlocutori: ma il modo per evitarlo (l’intervento sul cuneo fiscale) non mi sembra affatto un passaggio complicato.

C’è, poi, la dimensione politica del problema, e questo è l’altro tema dove la Riforma Morbida mi appare una strada decisamente più plausibile di ogni altra soluzione.

L’atteggiamento della Germania, sgradevole finché si vuole, criticabile finché si vuole, non cooperativo finché si vuole, a me appare molto semplice da interpretare. Non è disposta a fare NULLA che venga incontro ai problemi dei vicini, per quanto essenziali possano essere queste richieste per riportare l’Eurozona alla prosperità economica.

Quindi no ai trasferimenti, no alla rivalutazione della moneta tedesca (che implica perdita di competitività per la Germania e svalutazione dei crediti tedeschi verso il Sud) e no all'accettazione di alti livelli di inflazione e di crescita dei salari in Germania.

Le analisi dello scenario politico naturalmente sono più aleatorie di quelle tecnico-economiche. Ma, se è vero quanto sopra, non passerà neanche un’azione espansiva finanziata o garantita dalla BCE. Perché comunque è una richiesta a cui la Germania dovrebbe acconsentire. E la risposta sarebbe sempre no.

Il massimo che ci possiamo attendere, oggi che l’indebolimento generale dell’economia sta creando rallentamenti anche in Germania, è lo stretto indispensabile per riportare il trend tedesco a livelli decorosi. Quindi un po’ di flessibilità sull’interpretazione dei limiti di Maastricht magari ci sarà, e non verrà applicato il Fiscal Compact perché è assolutamente ineseguibile. Insomma quel tanto che basta a riportare la crescita reale tedesca intorno all’1,5%-2%. Non di più: a quel livello l’industria esportatrice tedesca sta già bene ed evita eccessive richieste salariali dai dipendenti.

Ma questo implica che l’Italia resta a zero, la Francia al massimo poco sopra e la disoccupazione continua ad aumentare o a rimanere altissima in tutta l’Eurozona mediterranea.

Politicamente, ritengo la Riforma Morbida la via di gran lunga più plausibile: perché non è deflagrante (al contrario del breakup), ma nello stesso tempo può essere adottata per azione unilaterale di singoli paesi. Senza chiedere NIENTE alla Germania, in altri termini: che è una condizione politica essenziale.

Richiede, comunque, una forte volontà, oggi assente sia in Italia che in Francia. Ma il continuo deterioramento della situazione economica porterà a cambiamenti.

giovedì 28 agosto 2014

“Helicopter Money” e mandato BCE


Trovate qui un articolo di Mark Blyth e Eric Lonergan, pubblicato sul sito “Foreign Affairs”, e in corso di traduzione (qui la prima parte) a cura di “Voci dall’estero”. Il tema è quello di un’azione diretta, da parte delle banche centrali, per immettere potere d’acquisto nell’economia mediante distribuzione di liquidità (di soldi, in altri termini) agli individui.

Avevo spiegato pochi giorni fa perché l’uscita dalla crisi richiede questo tipo di azione, mentre per ora la BCE ha varato solo progetti di agevolazione del credito: i quali avranno effetti del tutto trascurabili perché portano alla fontana un cavallo che non vuole bere.

Alcune riflessioni.

PRIMO, un’azione di questo genere rientrerebbe in effetti, a pieno titolo, nel mandato BCE. La Banca Centrale Europea ha il compito di mantenere l’inflazione a livelli “inferiori ma vicini” al 2%. L'inflazione è, invece, scesa nettamente al di sotto di quel livello, e continua a diminuire. Il modo più rapido e sicuro per invertire la tendenza è quello di aumentare la spesa: e se non lo fanno gli stati, mettere gli individui nella condizione di spendere di più è proprio quanto consente alla BCE di raggiungere i suoi obiettivi.

SECONDO, l’effetto “collaterale” di questa azione sarebbe quello di produrre una forte ripresa di PIL e occupazione nell’Eurozona. Cioè di portarla fuori dalla depressione…

TERZO, esiste il problema delle differenze di competitività tra i paesi dell’Eurozona. Maggior potere d’acquisto nel sud dell’Eurozona significherebbe una crescita delle importazioni e quindi il riformarsi dei deficit nei saldi commerciali che hanno raggiunto livelli rilevanti, per essere poi sostanzialmente azzerati, a partire dal 2011, a seguito delle politiche di austerità. Ma questo problema può essere superato senza difficoltà facendo sì che la BCE non eroghi denaro solo agli individui, ma anche alle aziende dei paesi dell’Eurozona Sud, in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti. In pratica, questo abbasserebbe il costo del lavoro per le aziende, con effetti di riallineamento della competitività simili a quelli di una svalutazione.

QUARTO, naturalmente la Germania riterrebbe iniqua un’azione di erogazione di moneta senza contropartita rivolta esclusivamente all’Eurozona Sud. Ma anche qui c’è un modo molto semplice per superare questo problema. Se cittadini e aziende italiane ricevono moneta in quantità pari, ad esempio, al 10% del PIL, moneta pari a una medesima percentuale del PIL tedesco può essere emessa dalla BCE e da essa utilizzata per acquistare ed annullare debito pubblico della Germania. In altri termini, i paesi che hanno un deficit di domanda e di competitività ricevono moneta per azzerarlo. Gli altri ricevono moneta per ridurre il debito statale.

QUINTO (parecchi di voi l’avranno già intuito…) questa è la via per attuare la Riforma Morbida tramite l’azione della BCE. Altrimenti, ci sono i Certificati di Credito Fiscale

martedì 26 agosto 2014

Ricevo e volentieri pubblico


da parte di un gentile lettore:

 “Sono sempre più stupito del fatto che trovo tutte le sue argomentazioni semplicemente “perfette”. Lei si chiederà “ma perché stupito ?” Sono stupito perché mi domando a mia volta “ma come fanno persone che si occupano di economia e di politica economica dalla mattina alla sera a non rendersi conto di quanto tempo inutile stiamo perdendo e di quanto sarebbe semplice ed opportuno applicare una sorta di Riforma Morbida come quella da lei ipotizzata o, se ancora non ci credono, fare comunque scelte di politica economia coraggiose e anche un po’ più indipendenti ?” E se poi qualcuno in Europa non è d’accordo, intanto facciamogli vedere che la nostra economia riparte davvero e poi ne discutiamo…

Io sono un ex-bancario oggi in pensione e seguo la piccola azienda dei miei figli, conseguentemente di tanto in tanto sono in banca. Mai come da due / tre mesi a questa parte ho visto il direttore della filiale darsi da fare per impiegare denaro. Pensi che mi scadeva una piccola cambiale agraria per la quale, da buon bancario, mi ero nel tempo procurato i fondi per il rimborso. Bene non voleva farmela estinguere. Mi aveva trovato un titolo con il quale facevo quasi pari pur di farmi mantenere l’impiego. Lui insiste nel dire che in Direzione spingono perché le filiali facciano impieghi perché la banca è piena di soldi ed ha bisogno di trovare dove metterli… (senza far nomi si tratta di una delle prime banche europee!!!!)

Lei ha centomila volte ragione: servono soldi da spendere non soldi per indebitarsi ancora. E lo stesso ha ancora centomila volte ragione quando dice “sfora Matteo sfora”. Per un paese come l’Italia, infatti, avere un debito di 2500 miliardi invece che uno di 2000 non cambia niente. Il problema semmai è come utilizzare il maggior debito e come farlo gestire.

La ringrazio per quello che fa e come al solito le auguro di essere ascoltato”.

 

Ho risposto:
 
“La ringrazio moltissimo ! purtroppo la dimensione politica del problema è un po’ più complessa di quella economica.

Si è saldato un gruppo di interessi che al momento domina la scena.

La grande industria esportatrice, soprattutto tedesca (ma anche di altri paesi che hanno delocalizzato).

Gli eurocrati di Bruxelles e di Francoforte, che fanno finta (per interesse di carriera, ovviamente) di credere al mirabile sogno dell’Europa unita (quot commoda dat nobis haec fabula Christi…)

La grande finanza e i grandi gruppi multinazionali, che sono pro-estabishment (qualunque sia l’establishment) per definizione.

Cambierà, tutto questo, e continuo a pensare tra non molto. Sulle date non ho certezze, tuttavia.

Fa rabbia e frustrazione vedere quante persone soffrono senza motivo e senza colpe per tutto questo. Io continuo, comunque, non ne dubiti”.

 

Nell’autorizzarmi a pubblicare questo scambio, il lettore ha poi aggiunto:

“Si figuri. Faccia pure. Anzi visto che mi sono ricordato voglio fornirle una massima a me molto cara di mio padre (un contadino con la quinta elementare) che diceva spesso “prima di pensare a come fare per spendere cento lire in meno, pensa a come fare per guadagnarne duecento in più.”

 

Ora, questo consiglio è saggio in generale. Applicato a una famiglia o a un’azienda va preso naturalmente con una certa cautela, perché i costi sono certi e i ricavi meno. Ma applicato a un’economia nel suo complesso diventa semplicemente folle non tenerne conto, in un momento come questo.
 
Perché un sistema economico è fatto di persone e di capacità di lavorare e di produrre, e guadagnare di più significa, semplicemente, mettere all’opera quelle che in un dato momento sono inattive. Lasciare inoperose persone e risorse produttive che sono pronte a essere impiegate perché esistono dei “vincoli finanziari” equivale a essersi inventati limitazioni che non esistono, e comportarsi sulla base di una pura credenza superstiziosa.

lunedì 25 agosto 2014

Mario Draghi e il cavallo di Keynes


La citazione probabilmente più famosa, tratta dalle opere di John Maynard Keynes, è “nel lungo periodo siamo tutti morti”. Così celebre che si ha quasi pudore di utilizzarla: per quanto profonda e vera, è menzionata così frequente da suonare quasi banale.

Un’altra, invece, la sentivo altrettanto spesso ai tempi ormai lontani dei miei studi universitari. Molto meno oggi. In realtà Keynes citava a sua volta – se ho ben capito – un proverbio popolare inglese. Comunque si applica particolarmente bene alla situazione odierna, soprattutto con riferimento alle prossime probabili mosse della Banca Centrale Europea.

La frase è: “tu puoi portare un cavallo alla fontana, non puoi costringerlo a bere”.

La BCE ha in parte già varato, e in parte sta valutando, l’adozione di una serie di misure finalizzate ad agevolare il credito e a renderlo meno oneroso. E’ già stato annunciato il TLTRO, può darsi che venga avviato un programma di QE (Quantitative Easing).

Le descrizioni tecniche di queste iniziative non sto, qui, a rammentarle. Ottimi articoli al riguardo ne trovate quanti ne volete.

Quello che mi interessa chiarire in questa sede è un’altra cosa.

Non serviranno a niente.

Il motivo è che sono tutti sforzi finalizzati a portare a bere un cavallo che non ne ha nessuna voglia. Famiglie e imprese, nei paesi economicamente depressi dell’Europa mediterranea, non vogliono indebitarsi. Perché il loro potere d’acquisto è in costante deterioramento, a causa di politiche economiche che continuano ad aumentare tasse e a contenere spese pubbliche, seguendo il mantra del “consolidamento fiscale”.

Se circola sempre meno potere d’acquisto, voglia di indebitarsi non c’è. Gli individui temono ulteriori deterioramenti dei loro redditi – il lavoratore dipendente ha un posto di lavoro a rischio, il lavoratore autonomo un’attività che gli rende sempre di meno. Le redditività delle aziende è in continuo calo.

Tutto questo rende problematico far fronte ai debiti attuali: altro che incrementarli. Per quanto agevolati e a buon mercato i nuovi debiti possano essere.

Si esce da un contesto di depressione e di deflazione immettendo direttamente potere d’acquisto nell’economia. Deve essere emessa moneta non per agevolare il credito, ma per attuare forti politiche di deficit spending: che vogliono dire più reddito e più patrimonio spendibile per aziende e individui.

BCE e Commissione Europea continuano a essere disperatamente in ritardo rispetto alle esigenze economiche dell’Eurozona. I programmi di agevolazione del credito partiranno, e serviranno a far perdere altro tempo – sei mesi ? un anno ? – prima che sia constatata e conclamata la loro inutilità.

Oh, e nel frattempo ferve il dibattito sull’opportunità di attenuare il ritmo del consolidamento fiscale – allentare i vincoli di Maastricht, il Fiscal Compact.

Dovendo andare da Milano a Venezia, in altri termini, si è partiti a 200 all’ora verso Torino. Adesso si discute di rallentare un filino la velocità, perché – guarda un po’ – siamo arrivati a Vercelli invece che a Vicenza.

Prima o poi anche gli eurocrati capiranno come stanno le cose. Immagino. Forse.

Nel frattempo, preparatevi a leggere (non da parte mia, per carità: ma avrete modo di leggerne parecchie) dotte disquisizioni, venate di stupore e di costernazione, su come e perché il cavallo, condotto a queste bellissime fontane, si rifiuta ostinatamente di bere.

martedì 19 agosto 2014

Un suggerimento per la Spending Review


Il tema è di moda, visti i malumori pre- e post-ferragostani espressi dal commissario Cottarelli. E la maggior parte dei commenti segue la falsariga tipica: non si riescono a tagliare gli sprechi, per questo i conti dello stato sono in difficoltà, non usciremo mai dalla crisi in questo modo.

La verità è un po’ diversa, anzi parecchio. Non usciremo mai da questa crisi con azioni di riduzione della spesa. Da una situazione di depressione economica e di deflazione si esce incrementando le risorse messe a disposizione del sistema economico, non riducendole.

Questa è una verità semplice ma controintuitiva che parecchie persone comprendono, ma molte altre no. E constato quotidianamente che non c’è alcuna correlazione tra il livello di istruzione di chi capisce e di chi non capisce: parecchie mie conoscenze, magari professionisti di ottimo standing e di eccellente qualità, impegnati in settori legati alla finanza, all’economia, alla pratica legale, non ci arrivano assolutamente.

La Spending Review ha senso se condotta in tutt’altro modo. All’annuncio che un costo è stato tagliato, si dovrebbe immediatamente associare la dichiarazione “e quei soldi li abbiamo, invece, spesi così”.

Una cattiva spesa che viene sostituita da una spesa migliore, o da un’efficace riduzione di tassazione, è positiva. Ma l’impatto maggiore, anzi l’unico che costituisce un beneficio di vera sostanza nel contesto attuale, arriva se per un euro di riduzione ce ne sono due di maggiore spesa. Spesa pubblica o anche spesa privata (grazie, per esempio, a minori tasse).

Tagliare un euro di spreco per ridurre il deficit pubblico significa invece, oggi, aumentare la disoccupazione. Lo “spreco” è, in realtà, allocazione poco equa della spesa. Metto qualcuno in condizione di spendere (un consigliere provinciale corrotto ? Er Batman, ricordate ?) e quello comunque spende e dà lavoro ad altri.

Molto meglio dare soldi a pensionati, disoccupati, o lavoratori e aziende (sotto forma di minori tasse) che a Er Batman. Ma molto, molto PEGGIO tagliare lo spreco per ridurre il deficit. Invece di spesa mal distribuita (ma che comunque alimenta domanda e lavoro) ottengo solo di far sparire soldi dalla circolazione, riducendo quindi il reddito della collettività.

Non sarebbe così se l’economia fosse in condizioni normali, cioè in uno stato in cui non ci sono livelli anomali di disoccupazione. Se l’economia lavora al suo normale regime, la spesa di Er Batman fa lavorare risorse produttive che altrimenti sarebbero impiegate altrimenti, ma comunque lavorerebbero: e l’allocazione sarebbe più equa.

Oggi invece meno soldi a Er Batman, se non sono riallocati verso un’altra forma di spesa, significa un maggior sottoutilizzo delle capacità produttive: più disoccupazione, come si diceva.

Tagliamo quindi la spesa sbagliata, ma per RIALLOCARE, non per diminuire il deficit. E per ogni euro di spesa tagliata, aumentiamo di due altre forme di spesa migliori.

Molti capiscono tutto questo, molti altri hanno letteralmente un blocco mentale nel rendersi conto che in una situazione di domanda depressa, di disoccupazione massiccia, le cose stanno così. Pazienza. Io continuo a spiegare.

martedì 12 agosto 2014

Mega fondo patrimoniale per ridurre il debito pubblico ? non funziona, ecco perchè


Di tanto intanto si leggono proposte (recentemente, per esempio, da parte di Roberto Poli e di Paolo Savona) imperniate su una grossa azione di dismissione di attivi patrimoniali dello Stato. Questo, al fine di ridurre il debito pubblico e il relativo carico di interessi passivi, che impedisce – si afferma – di rilanciare l’economia con riduzioni di imposte e/o con incrementi di spesa pubblica.

Queste proposte prevedono in genere di creare una grossa holding finanziaria a cui conferire – per esempio – 400 miliardi di attivi, che potrebbero includere, tra le altre cose, partecipazioni azionarie e cespiti immobiliari.

La finalità sarebbe di ridurre il debito del 20% circa (rispetto ai 2.000 e oltre attuali), risparmiando quindi una quota corrispondente di interessi – circa 16 miliardi, nell’esempio, su un totale di 80 miliardi annui.

Ma in realtà, se questi attivi fossero vendibili a condizioni non svilite, che senso ha passare tramite una megaholding ? Tanto vale effettuare direttamente le vendite. Fermo restando che il vantaggio di 16 miliardi annui per il bilancio dello Stato è teorico: con ogni probabilità i beni appetibili, cedibili senza difficoltà, producono rendimenti (per esempio le partecipazioni in ENI ed ENEL pagano ottimi dividendi) per un totale che rischia di essere anche maggiore dei 16 miliardi di interessi risparmiati.

Tutto questo, senza entrare nel merito dell’opportunità di spossessarsi di partecipazioni di interesse strategico per la nazione.

Il mega fondo patrimoniale entra in gioco perché, nella mente di chi lo propone, svolgerebbe una funzione diversa. Si prendono attivi dello Stato che oggi NON rendono 16 miliardi, anzi che non rendono pressoché nulla, e che NON sono vendibili per 400 miliardi. Li si conferiscono alla holding con l’idea che i 400 miliardi saranno realizzabili nell’arco di svariati anni. Invece di vendere gli attivi, si collocano le azioni della holding.

Ma a chi e a che prezzo ? nessuno le pagherebbe 400 miliardi oggi.

Occorre, allora, mettere in atto una conversione forzata di debito pubblico in azioni della holding. Per esempio il titolare di 100.000 euro di BTP se ne vede convertire 20.000.

Queste azioni potrebbero poi essere quotate, ma dati i presupposti il loro valore di mercato sarebbe ben inferiore a 400 miliardi – o a 20.000 euro nel caso del signore sopra citato. Forse si arriverebbe alla metà, ed è già probabilmente una stima ottimistica.

Stiamo parlando, in effetti, di una grossa operazione mascherata (ma neanche tanto) che può essere descritta come una imposta patrimoniale sul debito pubblico, o come una sua ristrutturazione.

Tralasciando le reazioni degli investitori esteri, una buona parte di questo impoverimento graverebbe sui risparmiatori italiani, ed è prevedibile che causerebbe un pesante effetto negativo su consumi e investimenti. Effetto ben superiore al beneficio di 16 miliardi di interessi risparmiati…

La via delle cessioni di patrimonio per ridurre il debito pubblico non porta da nessuna parte. La crisi italiana – la crisi dell’eurosistema in genere – si risolve in tutt’altro modo.

Con una grossa azione di espansione della domanda finanziata da moneta di nuova emissione. Rimettendo al lavoro persone e aziende oggi disoccupate o sottooccupate. Senza impatto sull’inflazione: non c’è inflazione rilevante finché non vengono riassorbiti livelli di disoccupazione massiccia, come gli attuali. E se ci sarà un po’ di incremento, per esempio dall’attuale zero al 2%, è esattamente l’obbiettivo che la BCE sta cercando di conseguire (senza sapere come, peraltro).

Le cessioni di beni possono essere utili, in qualche caso particolare, se un compratore paga particolarmente bene un attivo il cui possesso non riveste significativi interessi strategici per il settore pubblico. O se si dimostra in grado (ma non diamolo per scontato, non mancano gli esempi del contrario…) di gestirlo in modo più efficiente, tenuto conto degli interessi complessivi della comunità nazionale.

Ma riguardo alla soluzione dell’eurocrisi, le cessioni di beni pubblici non sono assolutamente in grado di svolgere una funzione primaria, o comunque rilevante.

mercoledì 6 agosto 2014

Troika per far che ?


Sono molto curioso (nervosamente curioso) di vedere che cosa accadrà, da settembre in poi, con l’elaborazione della legge di stabilità (en passant, la preferivo quando si chiamava legge finanziaria: se c’è una cosa di cui l’economia italiana oggi non ha bisogno è la stabilità – oggi siamo in una situazione stabilmente cimiteriale…)

Non mi aspetto che avvenga qualcosa di così radicale come la Riforma Morbida, ma la possibilità di uno sforamento degli euro-parametri (pazienza se in forma “coperta” cioè facendolo e pretendendo di non averlo fatto: la tattica politica ha queste esigenza, mi dicono…) esiste, e sarebbe un primo passo nella direzione giusta.

D’altra parte tra i vari scenari possibili ci sono anche quelli negativi, tra cui il più deleterio che mi riesce di immaginare è l’intervento della Troika – invocato da qualche noto commentatore politico (in netto calo d’influenza e di credibilità a dire il vero, ma qualcuno continua a prestargli attenzione: e questo non mi tranquillizza).

Ora, una riflessione al riguardo di impone. Che cosa fa d’abitudine la Troika (o il Fondo Monetario Internazionale quando interviene nei paesi emergenti) ? Eroga finanziamenti a un paese che non riesce più a collocare il suo debito sul mercato dei capitali, e nello stesso tempo impone severe misure restrittive (austerità, tagli di spese, incrementi di imposte). Affermando in tal modo di salvare il paese oggetto delle sue attenzioni (in realtà, salva i suoi creditori).

Bene: l’Italia ha difficoltà a collocare i suoi titoli di Stato ? La realtà è che gli investitori se li stanno strappando di mano, a tassi prossimi allo zero per le scadenze brevi, e inferiori al 3% per i BTP decennali.

Naturalmente è così perché il debito pubblico italiano è considerato sicuro per effetto del “whatever it takes” della BCE. Ma che cosa ci aspettiamo, che la BCE lo ritiri ? che faccia saltare l’euro e che commetta suicidio ?

Il problema della finanza pubblica italiana è la difficoltà di rispettare il limite del 3% per il rapporto tra deficit pubblico e PIL, per non parlare di raggiungere il “pareggio di bilancio strutturale” nel 2015 (o 2016 ? non si è capito) e di attuare il fiscal compact (dal 2016 ? anche qui, boh).

Che c’entra la Troika ? Che cosa c’entra la difficoltà (inesistente) di collocare debito ?

Serve qualcos’altro: serve la rimozione dell’allucinazione collettiva che ha portato qualcuno a concepire gli euro-parametri, a pensare che abbiano una qualche utilità, e ad affermare che siano attuabili

lunedì 4 agosto 2014

Sfora, Matteo, sfora…


Tra settembre e ottobre, il governo italiano e il presidente del consiglio Matteo Renzi saranno impegnati a predisporre la legge di stabilità e circolano, al riguardo, le illazioni più disparate.

Si va da un estremo – manovra restrittiva per mantenere (sarebbe più corretto dire per “illudersi di mantenere”…) il rapporto deficit pubblico / PIL nei limiti del 3% - all’altro – sforare i parametri senza se e senza ma.

La via giusta naturalmente è la seconda, e non ha senso farlo per pochi decimi di punto. Occorre un vigoroso riavvio dell’economia: quindi confermare gli 80 euro, estenderli a pensionati, disoccupati e partite IVA, riavviare gli investimenti pubblici, aggiungere almeno altri 20 miliardi di riduzione del carico fiscale sul lavoro a vantaggio delle aziende. Per esempio riducendo fortemente l’IRAP e/o gli oneri sociali.

Con un deficit / PIL al 6% per tre anni la ripresa sarà forte e solida. E la detassazione dei costi aziendali eviterà la formazione di squilibri commerciali con l’estero.

USA e UK sono ripartiti con deficit che hanno superato il 10%, senza creare inflazione né incrementi dei tassi d’interesse. E hanno peccato per eccesso di cautela: con deficit maggiori la ripresa sarebbe stata più forte e più rapida.

Che cosa diranno a Bruxelles ? lasciamoli bofonchiare, i parametri sono stati concepiti ignorando i principi base della macroeconomia, per non dire dell’aritmetica. L’economia dell’Eurozona è ferma senza benzina sotto un distributore e questi pretendono di fare un viaggio di 500 chilometri spingendo l’auto.

Si opporrà la BCE ? non scherziamo, se ritira il "whatever it takes" salta l’euro.

Si irriterà Berlino ? e che fa, lascia l’euro ? i tedeschi poi, che violano i parametri ogni volta che fa loro comodo – vedi il 6% per il surplus commerciale / PIL, superato sette volte negli ultimi otto anni.

Sfora, Matteo. I parametri sono parte del sistema che ha affamato la Grecia, rovinato il Portogallo, rapinato l’Irlanda, mandato in crisi Italia, Spagna e Francia. Sono ineseguibili e salteranno comunque nei prossimi dodici mesi. Tu oggi sei a un bivio. Scivolare nell’irrilevanza. O passare alla storia come il leader che ha risolto l’eurocrisi.