domenica 27 dicembre 2015

Le banche devono poter fallire ?

Una banca può fallire ? Sì. Ma deve esistere una linea di separazione netta e inequivocabile tra risparmio e investimento. L’investimento è rischioso, il risparmio non deve esserlo.

Negli USA esiste una garanzia federale sui depositi fino a 250.000 dollari (o anche più alta, se la banca decide di pagare un premio supplementare alla FDIC, la Federal Deposit Insurance Corporation). Fino a quella dimensione, un deposito bancario è sicuro quanto un titolo di Stato di pari scadenza.

Solo i depositi di dimensione eccedente la garanzia federale sono investimenti rischiosi. E il titolare di depositi di quella dimensione ha i mezzi per valutare il rischio connesso e per richiedere un rendimento adeguato.

I depositi di dimensione inferiore sono, al contrario, l’equivalente di banconote. Non le tieni sotto il materasso per motivi di praticità: ma come per le banconote, non esiste, NON DEVE ESISTERE il rischio di perderli per un qualsiasi tipo di problema che possa verificarsi in capo alla banca depositaria.

L’assicurazione statale sui depositi è nata negli anni Trenta, per eliminare le “corse agli sportelli” che sono stati un fattore decisivo nell’aggravare la Grande Depressione (e molte altre crisi bancarie e finanziarie in epoche precedenti).

Nell’Eurozona l’assicurazione sui depositi è stata, in buona sostanza, abolita, e si pretende che anche il titolare di un normale conto corrente di modesto importo (e rendimento nullo) si formi un’opinione in merito al rischio di insolvenza della banca. Una valutazione così complessa ed aleatoria da essere, spesso, fuori dalla portata anche degli specialisti.


L’Eurosistema è una follia. O una truffa.

sabato 26 dicembre 2015

Ancora sulla gestione dei saldi commerciali esteri nell’ambito del progetto CCF

Una riflessione aggiuntiva in merito a quanto detto nell'ultimo post.

Il progetto CCF prevede di evitare squilibri nei saldi commerciali esteri in quanto abbina (a) un’azione espansiva della domanda interna con (b) la riduzione del costo del lavoro lordo per le aziende che producono in Italia (allocando a queste ultime una parte delle erogazioni di CCF, in funzione dei costi di lavoro sostenuti).

In tal modo la competitività delle aziende italiane migliora, consentendo una crescita delle esportazioni nette adeguata a compensare l’aumento dell’import di materie prime e di altri beni o servizi non sostituibili con produzione interna.

Ora, va sottolineato che questo beneficio è tanto maggiore quanto più il sistema economico che attua il progetto CCF parte da una situazione di sottoutilizzo delle risorse produttive interne (“output gap”).

La migliore competitività prodotta dai minori costi di lavoro lordo può essere sfruttata dalle aziende (1) riducendo i prezzi e aumentando le quantità prodotte e l’occupazione interna.

Oppure, alternativamente (2) lasciando i prezzi invariati e incrementando i profitti, ma senza aumentare né la produzione né l’occupazione.

L’incentivo ad attuare quando descritto sub (1) è tanto più accentuato quanto più in partenza le risorse produttive sono sottoutilizzate: in tal caso, infatti, la produzione potrà essere accresciuta con necessità molto inferiori di sostenere incrementi di costi fissi e/o investimenti in maggiore capacità produttiva. L'incremento di produzione e vendite risulterà, quindi, decisamente più redditizio.

L’allocazione di CCF a riduzione dei costi di lavoro lordi delle aziende è quindi particolarmente efficace, in questo momento, per l’Italia, appunto perché la capacità produttiva è fortemente sottoutilizzata.

mercoledì 23 dicembre 2015

CCF, riallineamenti valutari e saldi commerciali esteri



Di frequente, mi vengono sollevate obiezioni, o richiesti chiarimenti, in merito a come, nell'ambito del progetto CCF, si gestisce l’equilibrio della bilancia commerciale estera.

Emettere Certificati di Credito Fiscale consente, a singoli stati membri dell’Eurozona, di effettuare azioni espansive della domanda mettendo in circolazione potere d’acquisto: e questo tramite uno strumento “quasi-monetario” – i CCF, appunto – che non è soggetto a rimborso (non è quindi debito) e non ha bisogno di essere garantito dalla BCE. La garanzia di valore dei CCF sta nel fatto che saranno utilizzabili per ridurre obbligazioni finanziarie (in primo luogo tasse e imposte) altrimenti dovute alla pubblica amministrazione del paese emittente.

In assenza di un riallineamento valutario, l’incremento di domanda interna produrrebbe un aumento di importazioni e tenderebbe quindi a peggiorare i saldi commerciali esteri. Le controindicazioni sono due: riduzione dell’effetto espansivo della manovra sul PIL, e incremento dell’indebitamento finanziario netto verso l’estero.

Per questo motivo, il progetto CCF prevede (vedi punto 9, qui) che una parte delle emissioni di CCF vengano destinate alle aziende in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti. In particolare, su una dimensione di emissioni annue che può raggiungere i 200 miliardi, le allocazioni alle aziende del settore privato potrebbero arrivare a 80, a fronte di costi di lavoro totali lordi dell’ordine di 450.

Questo equivale a una riduzione effettiva dei costi di lavoro vicina al 20%, che è l’ordine di grandezza della perdita di competitività subita dall’Italia nei confronti di altri stati membri dell’Eurozona, quali, in particolare, la Germania. Ed è anche l’ordine di grandezza di un possibile riallineamento valutario, tra “Nuova Lira” e “Nuovo Marco”, se l’euro si spaccasse.

L’allocazione di CCF alle aziende può essere resa più efficace, ad esempio privilegiando i settori più esposti alla concorrenza internazionale. O più semplicemente evitando di distribuirli a quelli per loro natura poco o nulla esposti (finanziario, assicurativo, concessionari di servizi pubblici rivolti in modo pressoché esclusivo al mercato domestico) e concentrando l’allocazione sugli altri.

E’ anche possibile e opportuno, in sede di allocazione, privilegiare le aziende localizzate nel Sud Italia, in modo da attenuare le differenze di competitività rispetto al Nord e avviare finalmente a soluzione il problema storico dell’economia italiana (prima dell’avvento dell’euro…): il dualismo Nord - Mezzogiorno.

Qui di seguito, rispondo ad alcune delle obiezioni più frequenti che mi vengono sottoposte in merito al tema del recupero di competitività e degli effetti sui saldi commerciali esteri.

D. Focalizzare l’attenzione sul recupero di competitività e sul beneficio per i saldi commerciali non significa adottare un approccio mercantilista, “beggar-thy-neighbor”, quello stesso che viene costantemente rimproverato alla Germania ?
R. L’obiettivo del progetto CCF è il rilancio di domanda, interna, PIL e occupazione. L’azione sul costo del lavoro lordo e sul recupero di competitività NON è finalizzata ad incrementare il surplus commerciale estero, ma a lasciare sostanzialmente invariato il saldo import-export, senza quindi sottrarre domanda netta ai partner commerciali esteri.
Peraltro, anche nell’eventualità di svalutazione della Nuova Lira conseguente a un break-up dell’euro, l’uscita dell’Italia dalla crisi richiederebbe politiche espansive della domanda interna; il riallineamento valutario sarebbe, anche in questo caso, utile allo scopo di non creare sbilanci nei saldi esteri, ma del tutto insufficiente DA SOLO a produrre una significativa ripresa dell’economia italiana.

D. Un riallineamento valutario agisce in maniera automatica (i prodotti italiani costano meno di prima, e quindi diventano più concorrenziali rispetto ai prodotti esteri), l’allocazione di CCF a riduzione dei costi di lavoro richiede invece che le aziende italiane prendano atto dei minori costi produttivi ed abbassino i prezzi: potrebbero non farlo.
R. In realtà i prezzi praticati dalle aziende italiane all’export non sarebbero espressi in Nuove Lire, ma in valuta straniera: così come in passato non si esportava con prezzi in lire, ma in dollari, marchi, yen eccetera. Anche nell’eventualità di uscita dall’euro il beneficio del riallineamento per essere conseguito richiede una modifica dei listini. Questo in passato non è mai stato un problema e non si vede perché dovrebbe esserlo oggi implementando il progetto CCF.
Il vantaggio automatico della svalutazione, senza passare tramite un adeguamento dei prezzi, si avrebbe invece per le aziende che vendono in Italia in competizione con prodotti esteri, dato che i prezzi sul mercato domestico sono evidentemente, in linea di massima, espressi in moneta nazionale. Comunque se in passato adeguare i listini non è mai stato un problema per le aziende esportatrici, non si vede perché dovrebbe essere diverso per chi compete (sul mercato italiano) con produttori esteri, dato che la natura del vantaggio conseguibile, e il modo per ottenerlo, sono i medesimi.
  
D. Alcune azioni di contenimento del cuneo fiscale, quindi di riduzione dei costi di lavoro lordo (mediante sgravi sui contributi sociali e previdenziali a carico delle imprese) sono stati effettuati, in particolare dal governo Prodi nel 2007. I benefici sui saldi commerciali esteri e sull’economia in generale non si sono però visti. 
R. Si è trattato di azioni di impatto modesto in quanto le dimensioni degli interventi e le somme stanziate sono state di pochi miliardi di euro. Le stime della perdita di competitività dell’Italia nei confronti della Germania in ogni caso tengono conto dell’impatto di queste azioni. In loro assenza, la perdita di competitività sarebbe stata magari del 22% invece che del 20%: il che non significa che le azioni fossero sbagliate in sé, ma che era del tutto inadeguato il loro ordine di grandezza.


domenica 20 dicembre 2015

L’alto debito e l’alto risparmio italiano

Notoriamente, l’Italia ha un livello elevato di debito pubblico, ma anche un alto ammontare di risparmio privato.

In effetti i due fenomeni sono strettamente connessi. Il debito pubblico si è formato tramite l’effettuazione di spesa che è stata meno che altrove coperta da tassazione: il che equivale a dire che gli italiani hanno prestato allo stato quello che non pagavano in tasse.

Un altro modo di spiegare il fenomeno è che i cittadini italiani traevano vantaggio dalla spesa pubblica (che è fonte di reddito privato) ma accettavano di finanziare con i loro risparmi una parte significativa (più significativa che altrove) di questa spesa. In pratica, i beneficiari della spesa pubblica ne ricevevano i vantaggi economici (indirettamente, ma in buona sostanza è così) sotto forma di titoli di Stato.

Se il debito pubblico italiano fosse rimasto denominato in lire, tutto questo avrebbe creato ben pochi problemi (come non ne crea in Giappone un debito pubblico molto più alto di quello italiano in percentuale del PIL, espresso in yen).

L’avvento dell’euro ha cambiato questa situazione in peggio: sia dal punto di vista dell’Italia – che oggi si trova con un debito denominato in una moneta di cui non controlla l’emissione – che dal punto di vista di altri stati membri dell’Eurozona – che temono un dissesto finanziario e bancario conseguente a crisi del debito pubblico che colpiscano singoli stati.

L’Eurozona ha adottato un insieme di meccanismi – l’OMT e il Fiscal Compact, in particolare – che avrebbero dovuto mettere il sistema in sicurezza.

In buona sostanza, il meccanismo di sicurezza è la garanzia della BCE sui debiti pubblici dei vari stati, fornita sotto la condizione che ogni stato punti a raggiungere il pareggio di bilancio e la graduale discesa (fino al 60%) del rapporto debito pubblico / PIL.

Questi meccanismi danno l’impressione di essere stati concepiti (anche) sulla base del concetto che l'eccesso di debito pubblico può essere eliminato facendo leva sul risparmio privato. E l’Italia, come detto, è il paese più di tutti in questa condizione.

Far leva sul risparmio privato per limitare il debito pubblico tuttavia non significa (necessariamente) che uno debba essere ridotto per abbassare l’altro. Anche e soprattutto perché il risparmio privato si riduce a seguito di manovre fiscali restrittive, che in periodo di economia depressa alimentano contrazione economica, deflazione, disoccupazione, fallimenti aziendali e incremento del rapporto debito pubblico / PIL – non viceversa.

E’ esattamente la situazione che il complesso dell’Eurozona, ma soprattutto l’Italia, stanno vivendo da parecchi anni.

Nell’ambito dell’Eurozona, c’è una (forse l’unica) maniera sensata per far leva sul risparmio privato allo scopo di ridurre il debito pubblico. Consiste nell’introdurre uno strumento finanziario che rappresenta un’effettiva riserva di valore, ma che non potrà mai forzare (non essendo destinato a essere rimborsato) il paese emittente ad andare in default.

Questo strumento, naturalmente, può essere costituito dai Certificati di Credito Fiscale.

La combinazione CCF + clausole di salvaguardia comporta che l’Italia (come qualsiasi altro paese dell’Eurozona che ne abbia necessità) possa attuare le necessarie politiche fiscale espansive quando (come oggi) occorra contrastare situazioni di domanda depressa, senza tuttavia incrementare l’indebitamento espresso in euro (o per essere più precisi, l’indebitamento tout court).

In pratica, ai tempi della lira l’alto debito pubblico italiano era sostenuto dal risparmio privato, cioè dalla disponibilità degli italiani a detenere titoli di Stato in lire nel proprio portafoglio.

Con la combinazione CCF + clausole di salvaguardia, i cittadini italiani sostengono l’alto debito pubblico senza ridurre il proprio risparmio privato (con le conseguenze disastrose per l’economia reale che stiamo sperimentando). Il risparmio privato anzi aumenta, ma una parte significativa dell'incremento assume la forma di CCF.

Il debito a rischio default non aumenta, anzi si riduce in proporzione al PIL (tranquillizzando la BCE e i partner dell’Eurozona) e l’economia viene rilanciata da azioni espansive attuate mediante erogazione di CCF.


E, finalmente, PIL, occupazione e risparmio privato risalgono.

venerdì 18 dicembre 2015

CCF + clausole di salvaguardia implicano che la BCE non deve aumentare le garanzie sul debito pubblico



Qualsiasi banca centrale indipendente dal potere politico (e la BCE rappresenta, a livello mondiale, la situazione di maggiore indipendenza possibile, in quanto è la banca centrale di un’unione monetaria, non di uno stato) ha varie preoccupazioni.

Una molto rilevante, tra queste preoccupazioni, è di trovarsi costretta a garantire, ed eventualmente a monetizzare, il debito pubblico contratto dal governo.

La crisi dei debiti sovrani ha indotto il sistema UE / BCE a dare all’Eurozona un assetto imperniato sul Fiscal Compact e sul programma OMT.

In buona sostanza, la BCE fornisce una garanzia illimitata sui debiti pubblici dei vari paesi a fronte dell’impegno a raggiungere il pareggio di bilancio e a ridurre, gradualmente ma costantemente, il rapporto tra debito pubblico a PIL, fino al 60%.

Tutto questo equivale a dire che la BCE garantisce (a tendere) un livello di debito pubblico pari al 60% del PIL, a condizione che questo livello non si incrementi.

Questo assetto, però, è un serissimo impedimento per gli stati membri dell’Eurozona, nel momento in cui occorre attuare politiche fiscali espansive per contrastare gli effetti di una situazione congiunturale negativa.

L’utilizzo dei Certificati di Credito Fiscale, unito a un appropriato sistema di clausole di salvaguardia non procicliche, risolve questa contraddizione dell’Eurosistema.

Ogni paese può effettuare azioni espansive quando necessario, emettendo CCF in misura adeguata a riportare la sua economia a un corretto livello di occupazione.

Il recupero del PIL e il conseguente incremento delle entrate fiscali evita che, nel momento in cui i CCF saranno utilizzati per conseguire riduzioni di pagamenti per imposte (o di pagamenti di qualsiasi altra natura dovuti allo stato emittente) si crei uno sbilancio tra entrate e uscite della pubblica amministrazione.

Le clausole di salvaguardia consentono di gestire, senza conseguenze negative di natura prociclica, eventuali situazioni sfavorevoli (rispetto alle previsioni) che si venissero a creare nel corso del programma CCF.

La combinazione di CCF e clausole di salvaguardia, in altri termini, consente di effettuare appropriate azioni di politica macroeconomica, e nello stesso tempo solleva la BCE dal rischio di dover garantire – ed eventualmente monetizzare – livelli incrementali di debito pubblico dei singoli stati.