domenica 26 aprile 2015

I soldi del monopoli


Mi dice un interlocutore su facebook, qualche giorno fa: “come fai a pensare di risolvere i problemi dell’economia dando soldi gratis, che siano euro o CCF ? è come dare soldi del monopoli all’inizio del gioco. Non risolvi niente”.
 
Io: “non risolvi niente ? se non lo fai non parte il gioco”.
 
Interviene Alex Casella: “infatti l’economia attuale nell’Eurozona funziona ESATTAMENTE come una partita di monopoli in cui, per qualche strano motivo, il banco si è messo in testa che è “virtuoso” togliere 20.000 lire ai giocatori ad ogni passaggio dal via, invece di darli. Qual è il risultato ? piano piano spariscono tutti i soldi dal tavolo e, uno alla volta, falliscono tutti i giocatori !”

sabato 25 aprile 2015

Greek parallel currency: how to do it - and how not

By Marco Cattaneo and Biagio Bossone
According to several recent media reports, both the Greek government and the ECB are taking into consideration the possibility (for Greece) to issue a parallel domestic currency (PDC) to pay for government expenditures, including civil servants salaries, pensions etc. This could happen in the coming weeks as Greece faces a severe shortage of euros.
It is important to stress that the introduction of a Greek PDC could take place in at least two ways, with deeply different implications.
The first avenue would be for Greece to issue IOUs, ie promises to pay to the bearer euros upon a future time expiration. Basically, these IOUs would be euro denominated debt obligations, issued and used to replace euro to pay salaries, pensions etc.
The second avenue would be to issue Tax Credit Certificates (TCC) and assign them to workers and enterprises at no charge. TCC would entitle the bearer to a tax reduction of an equivalent amount maturing in, say, two years after issuance. Such entitlements could be liquidated in exchange for euros and used for spending purposes. On the other hand, TCC purchasers would provide euros in exchange for the right to the future tax cuts.
TCC assignments would supplement disposable incomes and thus stimulate demand. As an example, by issuing TCC the Greek government could:
increase net monthly salaries by paying, say, 1.000 euros plus 100 TCC instead of just 1.000 euros;
reduce actual gross labor costs by assigning, say, 200 TCC to each domestic employer which pays a salary (gross of taxes and social costs) of 2.000 euros; and
fund humanitarian actions, job guarantee programs, and the like.
The first avenue is likely to trigger the effect envisaged by Costas Lapavitsas, Jacques Sapir, Frances Coppola and many others. In Lapavitsas words: “This is not a sustainable arrangement. It’s only a stopgap measure. And, at the end of the line, it’s a stopgap towards the exit, basically. It needs to be understood as such. So yes, I’m in favor of it… But be under no illusion that this could be a permanent, stable solution”.
The reason why the IOU avenue is not a permanent solution is twofold: (i) the Greek government would be issuing additional euro-denominated debt obligations without any hint as to how it will be able to reimburse them, and (ii) replacing euro payments for salaries and pensions with IOU disbursements would clearly indicate to the general public that Greece cannot stay in the Eurozone.
The second avenue, the TCC one, is based on a very different idea: Greece aims at attaining a proper balance between euro government payments and euro governmental receipts. In addition, to expand demand and trigger a strong economic recovery, it introduces a supporting tool. As long as the total amount of circulating TCC is not too large as a percentage of GDP and of gross government fiscal revenue, TCC will be valuable, will be accepted by the general public and will trade at not too high a discount vis-à-vis the euro.
The TCC avenue would clearly be a superior solution, and would allow Greece to stay in the Eurozone, while stimulating demand by increasing citizens’ purchasing power, reducing domestic labor costs, and strongly increasing GDP. This would also generate, in due course, higher gross tax receipts (which will offset the shortfall in euro fiscal revenue due to TCC being used to settle future taxes).
If, as it appears to be the case, Greece has problems in repaying short-term debt installments to the ECB, the IMF and Eurozone partners, it should unilaterally announce (i) the implementation of the TCC program (ii) a commitment to generate a euro primary surplus (euro receipts less euro payments, TCC disbursements not included) of, say, 1% of GDP in 2015 and 3% of GDP from 2016 onward, and (iii) a proposal for a new repayment schedule, which would presumably include spreading the 2015 debt repayments through 2016-2018.
The ECB and the EU could react negatively to such an announcement, taking actions such as the suspension of the Emergency Liquidity Assistance to the Greek banking sector, which would precipitate the Grexit. On the other hand, this would precisely cause the outcome that everybody wants to avoid. It would be unwise and, arguably, unlikely to happen.

mercoledì 22 aprile 2015

Moneta parallela: può risolvere la crisi greca, ma è fondamentale il “come”



Negli ultimi giorni, varie indiscrezioni sui media hanno riferito che sia il governo greco che la BCE stanno valutando la possibilità che la Grecia emetta una moneta parallela nazionale per pagare stipendi di dipendenti pubblici, pensioni ecc. La sempre minore disponibilità di euro potrebbe indurre a questo passo nelle prossime settimane.
E’ importante sottolineare che l’introduzione di una moneta parallela può avvenire in almeno due modi, con implicazioni profondamente differenti.
Una prima possibilità è che la Grecia emetta IOU (“I Owe You”), cioè, sostanzialmente, promesse di pagamento di euro a scadenza. Si tratterebbe in pratica di titoli di debito, emessi per pagare determinati costi in sostituzione degli euro.
La via alternativa consiste nell’emissione di Certificati di Credito Fiscale (CCF) da assegnare gratuitamente, in primo luogo, a lavoratori e aziende. I CCF darebbero al possessore il diritto a una riduzione di pagamenti dovuti alla pubblica amministrazione, per tasse, imposte o per qualsiasi altra motivazione. Sono, in pratica, diritti di sgravio fiscale, utilizzabili a partire da una data prestabilita (per esempio, due anni dopo l’emissione).
I CCF sono un diritto patrimoniale con un valore certo a scadenza. Il soggetto ricevente potrebbe cederli sul mercato finanziario, convertendoli quindi in euro, con uno sconto finanziario probabilmente non molto diverso da quello di un titolo di Stato di pari scadenza.
I CCF verrebbero emessi per effettuare azioni di integrazione dei redditi e di stimolo del domanda. Per esempio, un dipendente con una retribuzione netta di 1.000 euro mensili continuerebbe a ricevere gli stessi 1.000 euro più CCF per un valore facciale di 100.
Nello stesso tempo, un’azienda che paga ogni mese 2.000 euro di costi lordi (stipendio netto, imposte e contributi) a un dipendente, si vedrebbe attribuire CCF per un valore facciale di 200, il che comporta una riduzione del costo azienda effettivo.
Una quota di CCF potrebbe anche essere utilizzata per azioni di spesa pubblica, quali interventi umanitari e programmi di garanzia dell’occupazione.
La via IOU con ogni probabilità avrebbe l’effetto ipotizzato da vari economisti e commentatori – tra gli altri, Costas Lapavitsas, Jacques Sapir, e Frances Coppola – che la vedono come una soluzione temporanea, che porta all’uscita dall’euro.
I motivi sono due. Da un lato, il governo greco emetterebbe nuovi titoli di debito denominati in euro, senza che si capisca come potrebbe onorarli (tenuto conto che già non è in grado di pagare il debito attuale). Dall’altro, sostituire pagamenti in euro per stipendi e pensioni con erogazioni di IOU è una chiara indicazione che la Grecia non è in grado di rimanere nell’Eurozona. Con ogni probabilità, quindi, la via IOU porterebbe rapidamente all’uscita.
La via CCF è basata su un’idea molto differente. La Grecia si dà l’obiettivo di ottenere un appropriato saldo tra incassi governativi in euro e pagamenti governativi in euro. Nello stesso tempo, per espandere la domanda ed avviare una forte ripresa economica, introduce uno strumento di supporto. I CCF, sotto la condizione di non emetterne una quantità eccessivamente alta rispetto al PIL e alle entrate fiscali greche, avrebbero un valore significativo e sarebbero cedibili contro euro con uno sconto non elevato rispetto al valore facciale.
La via CCF è rivolta a creare le condizioni per rimanere nell’Eurozona, e, nello stesso tempo, per stimolare la domanda, accrescere il potere d’acquisto dei cittadini, ridurre i costi di lavoro interni e produrre la risalita del PIL. In questo modo si ottengono anche le maggiori entrate fiscali che compenserebbero la riduzione degli incassi altrimenti prodotta dall’utilizzo dei CCF (via via che questi giungono a scadenza).
Rimane il problema delle imminenti rate di rimborso su alcuni debiti greci verso la BCE, il FMI e i partner dell’Eurozona. La Grecia dovrebbe annunciare contemporaneamente un pacchetto di interventi basato su (i) l’introduzione dei CCF (ii) l’impegno a raggiungere un surplus di bilancio pubblico primario (incassi pubblici in euro meno pagamenti pubblici in euro, erogazioni di CCF escluse) per esempio dell’1% del PIL nel 2015 e del 3% successivamente, e (iii) una modifica del piano di rimborso dei debiti, che potrebbe limitarsi a posporre le scadenze 2015 ripartendole sul periodo 2016-2018.
Si potrebbe immaginare una reazione negativa di BCE e UE a un annuncio di questo tipo, con azioni quali la sospensione del programma ELA (Emergency Liquidity Assistance) al settore bancario greco. Ma, a parte la dubbia legittimità di un’azione di questo tipo alla luce dei trattati, questo provocherebbe l’uscita della Grecia dall’euro: esattamente quanto BCE e UE desiderano evitare. Sarebbe da parte loro molto poco saggio, ed appare, di conseguenza, improbabile.

lunedì 20 aprile 2015

Greek parallel currency: how to do it properly



According to several recent media reports, both the Greek government and the ECB are taking into consideration the possibility (for Greece) to issue a parallel domestic currency (PDC) to pay governmental expenditures, including civil servants salaries, pensions etc. This could happen in the coming weeks as Greece faces a severe shortage of euros.
It is important to stress that the introduction of a Greek PDC could take place in at least two ways, with deeply different implications.
The first avenue would be for Greece to issue IOUs, ie promises to pay to the bearer euros upon a future time expiration. Basically they would be euro denominated debt obligation, issued to pay salaries, pensions etc. in IOUs instead of in euro.
The second avenue would be to issue Tax Credit Certificates (TCC) which entitles the bearer to settle future tax obligations, and to use them to supplement payments and to implement new demand support actions. The Greek government could, for instance:
increase net monthly salaries by paying eg 1.000 euros plus 100 TCC instead of just 1.000 euros;
reduce actual gross labor costs by giving eg 200 TCC to each domestic employer which pays a salary (gross of taxes and social costs) of 2.000 euros;
partially fund humanitarian actions, job guarantee programs etc.
The first avenue is likely to trigger the effect envisaged by Costas Lapavitsas, Jacques Sapir, Frances Coppola and many others. In Lapavitsas words: “This is not a sustainable arrangement. It’s only a stopgap measure. And, at the end of the line, it’s a stopgap towards the exit, basically. It needs to be understood as such. So yes, I’m in favor of it… But be under no illusion that this could be a permanent, stable solution”.
The reason why the IOU avenue is not a permanent one is twofold: (i) the Greek government would be issuing additional euro-denominated debt obligations without any hint on how it will be able to reimburse them, and (ii) replacing euro payments for salaries and pensions with IOU disbursements would clearly indicate to the general public that Greece cannot stay in the Eurozone.
The second avenue, the TCC one, is based on a very different idea: Greece aims at attaining a proper balance between euro governmental payments and euro governmental receipts. In addition, to expand demand and trigger a strong economic recovery, it introduces a supporting tool. As long as the total amount of circulating TCC is not too large as a percentage of GDP and of gross governmental receipts, TCC will be valuable, will be accepted by the general public and will trade at not too high a discount vis-à-vis the euro.
So what has to be done is going along the TCC avenue, clearly stating that it aims at allowing Greece to stay in the Eurozone, while implementing demand support actions to increase citizens’ purchasing power, to reduce domestic labor costs, and to strongly increase GDP. This would also generate, in due course, higher gross tax receipts (which will offset TCC being used to settle future taxes).
If, as appears to be the case, Greece has problems in repaying short-term debt installments to the ECB, to the IMF and to Eurozone partners, it should unilaterally announce (i) the implementation of the TCC program (ii) a commitment to generate a euro primary surplus (euro receipts less euro payments, TCC disbursements not included) say of 1% of GDP in 2015 and 3% starting from 2016, and (iii) a proposal for a new repayment schedule, which would presumably include spreading 2015 debt repayments over eg the 2016-2018 timeframe. 
The ECB and the EU could react negatively to such an announcement, taking actions such as the suspension of the Emergency Liquidity Assistance to the Greek banking sector, which would precipitate the Grexit. On the other hand, this would precisely cause the outcome that everybody wants to avoid. It would be unwise and, in my opinion, it is unlikely to happen.

martedì 14 aprile 2015

Intervista per FerraraItalia.it



D. Oggi più che mai non è facile per i cittadini avere gli strumenti per comprendere le origini della crisi economica che ha investito l’Eurozona già da diversi anni. Molti analisti economici ed esponenti politici insistono nell’indicare il principale fattore della crisi economica negli sprechi che aumentano il debito pubblico e nella cattiva gestione dello Stato. Che lettura dà lei della situazione e di queste analisi ?

R. Sulla qualità di gestione della spesa statale esistono molti aneddoti e molti luoghi comuni, su cui ci sarebbe parecchio da discutere. La singola maggiore voce di spesa pubblica in Italia è il sistema sanitario, che è considerato uno dei cinque più efficienti al mondo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Possibile che tutto il resto del settore pubblico italiano sia una tale sciagura da renderlo la palla al piede dell’economia ?
Il punto su cui riflettere, però, è che gli indicatori economici italiani si sono pesantemente e improvvisamente discostati, in peggio, da quelli (per esempio) del Regno Unito a partire da metà 2011. La spesa pubblica italiana non è improvvisamente diventata meno efficiente in quel periodo: sono invece stati attuati forti incrementi di tassazione, mentre gli inglesi – dotati della loro moneta – continuavano, al contrario, a supportare la ripresa della loro economia.
Quanto al debito pubblico italiano, il 99% del problema non è relativo al suo livello, ma all’essere denominato in una moneta – l’euro – che per l’Italia è a tutti gli effetti una valuta straniera. L’austerità è stata imposta da UE e BCE come condizione per garantire il debito pubblico: ma se il debito fosse rimasto in lire, non ci sarebbe mai stato un rischio d’insolvenza – una banca centrale nazionale è sempre in grado di garantire il rifinanziamento del debito in moneta propria. E in una fase di domanda depressa (conseguenza della crisi finanziaria mondiale del 2008, i cui effetti non erano ancora stati sanati) questo è possibile senza che inflazione e tassi d’interesse vadano fuori controllo.

D. La moneta è unita di misura dell’operosità in termini di quantità, qualità e valore. Prima dell’euro, la moneta era fondamentalmente gestita dallo Stato. Oggi l’euro è gestito da una banca sostanzialmente privata che presta denaro agli stati a debito e con interessi. Quali conseguenze ha portato questo cambio strutturale ?

R. Uno stato che emette la propria moneta è in grado di utilizzarla per attuare azioni di espansione della domanda – meno tasse, più spesa pubblica, più sostegni alla spesa privata – in modo da superare fasi di depressione della domanda conseguenti, per esempio, a crisi del mercato finanziario. Se la moneta deve invece essere presa a prestito, proprio nei periodi di difficoltà economica questo può risultare impossibile, o troppo oneroso. La crisi di molti paesi dell’Eurozona è in larga misura una risultante di questa situazione.

D. Quali effetti hanno avuto le manovre “di salvataggio” attuate dalla Banca Centrale Europea, come il Quantitative Easing (QE), messo in campo da Draghi all’inizio del 2015, nel rivitalizzare l’economia reale dei paesi aderenti all’Eurozona ?

R. Il QE, che ha fatto seguito a una serie di azioni di garanzia dei debiti pubblici intraprese a partire dal 2012, ha prodotto due fenomeni: il calo dei tassi d’interesse pagati dagli stati, e l’indebolimento dell’euro, soprattutto rispetto al dollaro. Il calo dei tassi tuttavia non si è tradotto in una spinta al potere d’acquisto disponibile per aziende e cittadini, in quanto la UE non ha smesso di richiedere azioni di riduzione dei deficit pubblici – che, in una situazione di economia depressa, implica di continuare a sottrarre risorse all’economia reale.
L’unico effetto positivo degno di nota è legato alla svalutazione dell’euro. Le aziende italiane che esportano nell’area del dollaro stanno traendone alcuni vantaggi. Siamo ben lontani, tuttavia, da quanto occorrerebbe per avviare un significativo recupero dei pesanti danni subiti dall’economia italiana dal 2008 in poi, anche perché metà del nostro interscambio estero si svolge all’interno dell’Eurozona.

D. Quali decisioni secondo lei deve prendere il governo italiano per dare un nuovo impulso all’economia nazionale e per far uscire il nostro paese dalla spirale recessiva in cui è impantanato (meno lavoro, meno stipendi e meno consumi) ?

R. Il governo italiano dovrebbe attuare azioni di espansione della domanda interna, e nello stesso tempo favorire il recupero di competitività delle aziende italiane, in primo luogo riducendo la tassazione e gli oneri accessori sui costi di lavoro.
Questo è impedito dai trattati di funzionamento dell’eurosistema. In assenza di un accordo politico che porti alla loro revisione, il superamento della crisi richiede azioni unilaterali da parte dei paesi in difficoltà. La rottura dell’euro, con uscita dal sistema di singoli paesi, è uno scenario possibile, che presenta però forti complessità politiche e operative.
La via che personalmente sto sviluppando e promuovendo, insieme a un gruppo di economisti e ricercatori, è l’introduzione di Monete Fiscali nazionali. Vari paesi potrebbero introdurre Certificati di Credito Fiscale (CCF), cioè titoli utilizzabili per pagare tasse e imposte future nel territorio dello stato emittente, e assegnarli gratuitamente a cittadini e aziende. Non sono debito perché lo stato emittente non è obbligato a rimborsarli; hanno un valore di mercato e possono anche essere utilizzati in transazioni dirette tra privati. Hanno quindi alcune caratteristiche della moneta – pur non essendo moneta ai sensi di legge – e ridarebbero ai singoli stati le leve di politica economica oggi necessarie, da applicare in forme e misure differenziate in funzione delle esigenze specifiche di ogni paese. L’azione espansiva prodotta dalla distribuzione di CCF rilancia domanda, PIL, occupazione e gettito fiscale, il che evita il riformarsi di squilibri fiscali quando, in futuro, i CCF arriveranno a scadenza.
E’ una strada che comporta una forte revisione dei meccanismi di funzionamento dell’eurosistema. Non è però deflagrante: l’euro continua a esistere come moneta circolante e come valuta di conto in tutta l’Eurozona. E si evitano quindi le grandi complicazioni connesse a un processo di rottura della moneta unica.

D. La vicenda greca sta evidenziando le criticità del sistema euro. Ritiene che queste dinamiche possano presto coinvolgere altri paesi dell’Eurozona ? Cosa pensa potrà accadere alla Grecia e agli altri stati membri dell’Eurozona ?

R. Il governo Tsipras, vinte le elezioni del 25 gennaio 2015, ha sottoposto alla UE alcune proposte, per la verità ragionevoli e moderate (forse addirittura troppo, nel senso che rischiavano di essere insufficienti, a mio avviso). In pratica, una riduzione (rispetto alle richieste UE) del surplus primario del bilancio pubblico e un riscadenziamento del piano di rimborso del debito.
La UE ha però reagito con un atteggiamento di totale chiusura, non manifestando alcuna concreta disponibilità a rivedere le fallimentari politiche di austerità imposte alla Grecia da fine 2011 a inizio 2015.
Il governo Tsipras non vuole forzare l’uscita della Grecia dall’Eurozona. Dato questo presupposto, l’introduzione di una Moneta Fiscale greca in affiancamento all’euro potrebbe essere la soluzione appropriata. La Grecia dovrebbe adottarla unilateralmente, senza “rompere” l’euro, e usarla per attuare le necessarie azioni di rilancio della propria economia. Sempre unilateralmente, dovrebbe sospendere i pagamenti delle rate di debito dei prossimi mesi, proponendo un nuovo piano di rientro con scadenze posposte (non necessariamente di molto).
Il pallino passerebbe nelle mani di UE e BCE: che potrebbero reagire forzando la rottura, eventualità che sarebbe però – dal loro punto di vista – autolesionista. Oppure accettare il nuovo status quo, prendendo atto che consente l’avvio a soluzione della crisi greca. Va sottolineato che proprio il rilancio dell’economia è anche il presupposto per rimborsare, sia pure con scadenze allungate, una quota significativa e forse anche lo totalità del debito attuale. Teniamo conto che il debito non deve essere portato a zero ma reso sostenibile, in parte diminuendolo e in parte grazie al recupero del PIL. A quel punto diventa anche possibile rifinanziarlo. 
Naturalmente tutto questo potrebbe preludere all’introduzione di Monete Fiscali nazionali anche da parte di altri paesi, ed essere il presupposto per, finalmente, risolvere in modo soddisfacente la crisi dell’Eurozona.

domenica 12 aprile 2015

Spesa pubblica e tasse: il problema non è come le chiami


Pochi giorni fa mi sono ritrovato in mezzo a uno scambio di tweet con quattro o cinque interlocutori, tra i quali un certo Matteo Renzi – proprio lui, quello vero (notoriamente, un accanito tweetterista).

Renzi menava vanto di aver ridotto le tasse con una serie di interventi, tra cui gli ormai celeberrimi ottanta euro. Al che qualcuno gli ha contestato che “come giustamente sancito dalla UE” non si tratta di una riduzione di tasse, ma di un sussidio, quindi di un incremento di spesa pubblica.

Renzi ha risposto che nel momento in cui diventano strutturali (cioè permanenti) gli ottanta euro vanno considerati – nella sostanza, a prescindere dalla forma – minori tasse.

A questo punto sono intervenuto io facendo notare che il problema è un altro. Gli ottanta euro sono stati dati con una mano e ripresi con l’altra, sotto forma di incremento di altre tasse – TASI, accise, acconti IRPEF e altro ancora. Le tasse totali non sono scese per nulla.

Questo mio intervento ha riscosso parecchio successo, collezionando vari retweet e stellinamenti. Quello che però è sfuggito, credo, all’attenzione di molti è l’incongruenza della posizione del primo interlocutore (chiamiamolo Inty). Implicitamente (anzi neanche tanto) la sua affermazione equivale a dire che gli ottanta euro non andavano bene perché erano maggiore spesa pubblica, mentre sarebbero stati ottimi se si fosse effettivamente trattato di minori tasse.

Ora, gli ottanta euro sono soldi trasferiti ai privati (cioè lo sarebbero se non se li fossero mangiati altre tasse, come dicevo: ma lasciamo da parte, per ora, questo punto). Se riteniamo positivo sostenere la spesa privata, che importanza ha che l’azione di sostegno venga classificata come riduzione di imposta o come trasferimento ?

Inty è probabilmente un sostenitore della tesi che più spesa statale è sempre brutto, e meno tasse è sempre bello. Gli sfugge però che i dati di contabilità nazionale espongono due concetti di spesa pubblica, molto diversi tra loro.

Il settore pubblico italiano ha, attualmente, un deficit di circa 50 miliardi annui, risultante grosso modo da 800 miliardi di uscite e da 750 miliardi di entrate.

Gli 800 di uscite sono quelli che, colloquialmente, vengono definiti di solito “spesa pubblica”. In realtà, circa 250 sono trasferimenti a privati – in buona parte pensioni.

La spesa pubblica che costituisce una componente del PIL non include i trasferimenti, ma solo la cosiddetta spesa diretta: stipendi dei dipendenti pubblici, investimenti pubblici eccetera. Se lo stato costruisce un ponte, o se assume un insegnante, o se apre un nuovo ospedale, la relativa spesa entra nel PIL. Se aumenta le pensioni no: naturalmente la disponibilità di maggiori risorse finanziarie può indurre il pensionato a incrementare i suoi consumi, con riflessi positivi su domanda e occupazione. Ma è un effetto indiretto, non diretto.

Il PIL prodotto direttamente dall’attività del settore pubblico è quindi circa di 550 miliardi (800 meno 250) su un totale di poco più di 1.600. L’incidenza della spesa pubblica sul PIL non è vicina al 50% come generalmente si sostiene: è, in effetti, poco più di un terzo.

Il nostro amico Inty ha probabilmente in testa che il problema principale dell’economia italiana sia l’eccesso di spesa pubblica, e questo come risultato di due convinzioni, entrambe infondate o, quantomeno, tutte da dimostrare.

La prima è che la spesa pubblica sia sempre e comunque inefficiente. Bene: dei circa 550 miliardi di PIL sopra citati, oltre 100 sono rappresentati dal servizio sanitario nazionale. Il sistema sanitario italiano si piazza regolarmente – nelle classifiche elaborate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – ai primi cinque posti al mondo per efficienza. E’ costantemente in lotta per le prime piazze con Singapore, Hong Kong e Giappone. Un gradino sotto si collocano, in genere, Svizzera e Spagna. Parecchio più in basso, Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti.

Se la principale voce di spesa pubblica ha un livello di efficienza molto superiore alla media mondiale, possibile che tutto il resto sia un tale buco nero da rendere il settore pubblico italiano, nel suo complesso, la palla al piede dell’intera economia nazionale ? Andrebbe quantomeno argomentato e provato, dati alla mano.

Ma c’è un altro punto. Se partiamo dal presupposto che la spesa privata è efficiente, dovremmo guardare con favore a un incremento dei trasferimenti tanto quanto a una riduzione delle tasse: entrambe sono categorie di risorse che vanno, o restano in mano, al settore privato, che decide poi come impiegarle.

Naturalmente ci può essere un problema di equità nel decidere chi beneficia dei trasferimenti, ma questo vale anche per le riduzioni di tasse e di imposte.

Ora, ripeto una volta di più quanto ho affermato in varie altre occasioni: io mi considero un liberale e non uno statalista, nel senso che ritengo che lo stato debba intervenire nell’attività economica se, e dove, è in grado di farlo, in modo evidente e comprovato, con maggiore efficienza ed equità del settore privato. Ma:

UNO, essere liberale significa avere una preferenza, a parità di condizioni, per la gestione privata delle risorse economiche rispetto alla gestione pubblica: non favorire la gestione privata a prescindere, cioè quando esistono chiare indicazioni che la gestione pubblica e più efficiente e più equa.

DUE, essere liberale non significa nemmeno, a maggior ragione, favorire necessariamente la riduzione della parte delle uscite statali – i trasferimenti appunto – che alimentano spesa privata.

TRE, nel momento in cui c’è disoccupazione massiccia, quindi pesante sottoutilizzo delle risorse produttive, ridurre le uscite statali per abbassare il deficit pubblico ottiene il risultato di ridurre il potere d’acquisto che circola nell’economia, quindi la domanda e la produzione. Con riflessi negativi anche sulla spesa privata, quella supposta essere più efficiente, e, soprattutto, sull’occupazione.

Diversa è la situazione in cui il sistema economico funziona a regime, quella cioè in cui, sostanzialmente, le risorse produttive sono tutte impiegate. In questo caso la riduzione delle uscite statali è il presupposto per riallocare le risorse verso altre forme di spesa. La cui maggiore efficienza ed equità, comunque, va argomentata, non presa come un assunto aprioristico perché “il privato è meglio del pubblico”.