domenica 3 gennaio 2016

Il QE che serve a Draghi e all’Eurozona è un altro

Come previsto, poche settimane fa la BCE ha ampliato il programma di Quantitative Easing avviato nel marzo scorso, estendendone la durata e le dimensioni e allargando la gamma di titoli oggetto di possibile acquisto.

La mossa era attesa, e in effetti le aspettative del mercato erano per un intervento anche più corposo. Il cambio euro / dollaro, poco al di sopra di 1,05 prima dell’annuncio, invece di puntare verso la parità come molti si attendevano si è invece rafforzato, assestandosi intorno all’attuale 1,09.

Il problema è però un altro, molto più di fondo. Non c’è nessuna indicazione che il QE stia conseguendo il suo obiettivo, quello di innalzare l’inflazione dell’Eurozona, attualmente tendente a zero, verso l’obiettivo BCE di un livello “inferiore ma prossimo” al 2%.

L’euro-QE soffre del difetto di base (identificato da molti economisti e commentatori parecchio tempo addietro, peraltro) di attuare azioni finalizzate a immettere liquidità nel circuito finanziario, senza però incrementare il potere d’acquisto disponibile per aziende e famiglie.

Di conseguenza, non c’è impatto apprezzabile su PIL e occupazione. L’Eurozona rimane bloccata nell’attuale contesto di stagnazione, domanda depressa e disoccupazione massiccia. E l’inflazione non risale.

Esistono strategie alternative ? sì, e non sono neanche particolarmente complesse da definire, né da attuare.

La più semplice e diretta è un’azione di “Helicopter Money”. La BCE potrebbe immettere potere d’acquisto – banalmente detto: soldi, euro – nelle tasche di cittadini e aziende, e anche dei governi (a supporto di programmi di investimenti pubblici) in misura adeguata a rivitalizzare domanda e PIL, e di conseguenza anche i prezzi.

Questa immissione di potere d’acquisto, tuttavia, non serve nella stessa misura in tutti i paesi dell’Eurozona. E’ fortemente necessaria in Italia, ad esempio, meno in Francia, poco o nulla in Germania. L’attuazione di interventi differenziati può costituire una difficoltà, non tanto a livello tecnico quanto alla luce dei trattati, e più ancora in sede di decisione politica. La Germania potrebbe obiettare, in buona sostanza, che si sta creando potere di spesa in euro, indirizzandolo ad alcuni paesi in misura più accentuata rispetto ad altri.

Un modo di superare questa obiezione è che singoli paesi dell’Eurozona emettano Certificati di Credito Fiscale – titoli utilizzabili per ottenere sgravi futuri nei pagamenti di imposte NAZIONALI – e li assegnino a cittadini e aziende, senza contropartita.

I CCF sono uno strumento di natura quasi-monetaria, e di fatto costituiscono una modalità per attuare un’azione di “Helicopter Money” selettiva nell’ambito di un gruppo di paesi che condividono la stessa valuta (senza però arrivare alla “rottura” dell’euro).

La BCE potrebbe a questo punto inserire i CCF nazionali nel ventaglio delle attività finanziarie acquistabili nell’ambito del programma di QE.

I CCF avrebbero un valore di mercato: gli assegnatari potrebbero convertirli in euro, o anche utilizzarli come corrispettivo in operazioni di compravendita. Il potere d’acquisto in circolazione aumenterebbe, con benefici su domanda, produzione e occupazione, e conseguentemente anche sui prezzi – riportando così l’inflazione verso il target BCE.

Non essendo una forma di debito (non sono infatti soggetti a rimborso) i CCF non entrano nel computo dei parametri rilevanti per il Fiscal Compact, per i patti di stabilità e per i trattati UE in genere (in particolare, deficit pubblico / PIL e debito pubblico / PIL).

Ogni singolo paese dovrebbe anche modulare le assegnazioni di CCF, attribuendone una parte alle aziende in funzione dei costi di lavoro da esse sostenute. Questo comporta un immediato miglioramento di competitività ed evita che l’azione espansiva sulla domanda interna produca squilibri nei saldi commerciali esteri. La migliore competitività implica infatti maggiori esportazione nette, compensando la crescita dell’import che, a parità di condizioni, si genera quando cresce la domanda interna.

I CCF sono anche utilizzabili per interventi di spesa sociale – reddito minimo, integrazioni pensionistiche, miglioramento dei sussidi di disoccupazione – e per finanziare o co-finanziare programmi di investimenti pubblici.

I paesi emittenti di CCF possono inoltre adottare un sistema di “clausole di salvaguardia non procicliche”. Se in un determinato anno gli obiettivi di finanza pubblica risultano difficili da centrare, a causa di shock macroeconomici esterni o per qualsiasi altra ragione, gli interventi correttivi possono consistere non in tagli di spesa o in aumenti di tasse “secchi”, bensì compensati da integrazioni nelle assegnazioni dei CCF.

In tal modo non si toglie potere d’acquisto dal sistema economico, ma si sostituiscono (nella misura necessaria) euro con CCF. Questo evita il gravissimo problema insorto dal 2011 in poi: le azioni di consolidamento delle finanze pubbliche effettuate in vari stati dell’Eurozona hanno prodotto un forte inasprimento della depressione economica, con pesanti conseguenze su PIL e occupazione. Il che ha minato gli obiettivi stessi di riduzione del debito pubblico, e creato proprio gli effetti deflattivi che oggi la BCE sta, con grandi difficoltà, cercando di contrastare.

Va sottolineato che il progetto CCF non richiede, per essere efficace, che i titoli emessi vengano acquistati dalla BCE. Un titolo utilizzabile per ridurre pagamenti altrimenti dovuti alle amministrazioni pubbliche nazionali, per tasse, imposte, contributi o qualsiasi altra causale, ha valore a prescindere dal fatto che la BCE sia disponibile ad acquistarlo. Il valore è infatti garantito dall’accettazione da parte dello stato emittente.


Comunque, l’inserimento dei CCF nel programma QE darebbe evidenza al fatto che si sta procedendo in modo coordinato e costruttivo per avviare una forte ripresa dell’economia dell’Eurozona, ponendo le basi per la sua stabilizzazione e promuovendo, finalmente, occupazione e coesione sociale. 

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