martedì 29 novembre 2016

Fillon


Domenica scorsa, le elezioni primarie del partito repubblicano francese hanno designato Francois Fillon quale candidato alle presidenziali della prossima primavera. Una sorpresa rispetto alle previsioni di qualche settimana fa, che davano favorito Alain Juppé.

La designazione di Fillon è vista da molti come un grande favore a Marine Le Pen. Con il centrosinistra in pieno disarmo, è pressoché certo che il primo turno delle presidenziali porterà al ballottaggio la La Pen contro il candidato repubblicano. Ci si aspetta quindi, dagli elettori che si identificano con la sinistra (più o meno moderata), un voto al candidato repubblicano, in funzione di “blocco”, o se vogliamo di scelta del male minore, rispetto al Front National.

Ma Fillon può scompaginare questi piani perché si presente con connotazioni, e con un programma, decisamente meno digeribili per un elettore progressista.

I primi sondaggi post designazione di Fillon per la verità non accreditano questa interpretazione, attribuendogli anzi (a Fillon) percentuali di consenso sorprendentemente alte. Ma questo può essere il tipico effetto di “traino mediatico” di cui beneficia quasi sempre (ma in genere solo temporaneamente) un candidato vittorioso. Per una valutazione più significativa è meglio attendere qualche settimana.

Ad ogni modo, l’ipotesi di una presidenza Fillon ha probabilità significative di avverarsi, il che rende opportuno iniziare a riflettere sul suo programma economico, definito “thatcheriano” da molti commentatori.

A prima vista, il programma si presenta molto, ma molto male. Massicci tagli di spesa pubblica (100 miliardi), licenziamenti di dipendenti statali (600.000) e due punti in più di IVA. Il tutto per finanziare riduzioni di imposte e contributi, sia personali che societarie. Previsti anche incentivi ai titolari di grandi patrimoni che prendano la residenza in Francia. Il saldo degli interventi dovrebbe consentire di pareggiare il bilancio pubblico, a fronte di deficit oggi previsti al 3,3% del PIL nel 2016, e al 3% nel 2017 (fonte FMI, World Economic Outlook Ottobre 2016).

Eseguito alla lettera, un programma del genere avrebbe conseguenze pesantemente recessive e risulterebbe controproducente anche ai fini del tentativo di riequilibrare il deficit statale. Sarebbe, in effetti, una riproposizione della fallimentare “austerità espansiva” che ha afflitto l’Eurozona soprattutto a partire dal 2012-2013, creando danni pesantissimi.

Un “dettaglio”, tuttavia, potrebbe modificare questa valutazione. Le riduzioni di spesa e i tagli di dipendenti pubblici sarebbero distribuiti sull’arco di cinque anni. E il pareggio di bilancio viene sì dichiarato come obiettivo, ma non nell’immediato. Il programma di riforme dovrebbe invece associarsi, inizialmente, a una crescita del deficit.

Fillon ha probabilmente in testa di ottenere un effetto iniziale espansivo, almeno per i primi diciotto mesi del suo (eventuale) mandato. I tagli di spesa saranno invece quasi tutti posposti. Ammesso che non ci sia nel frattempo una ripresa dell’economia così forte da ridurre il deficit pubblico senza porsi il problema di effettuarli (i tagli) sul serio…

Eseguito così, il programma di Fillon potrebbe non essere negativo come si presenta a prima vista, soprattutto se l’espansione iniziale del deficit pubblico fosse rilevante – almeno un punto percentuale per il 2017 e per il 2018. Se questa espansione di deficit verrà attuata, non ho alcun dubbio che la commissione UE non muoverà un dito per opporsi. E da Berlino si sentiranno pesanti mugugni, ma niente di più.

Preoccupante rimane l’idea di aumentare l’IVA di due punti, intervento fortemente regressivo e con impatti moltiplicativi sulla spesa privata che rischiano di essere pesanti. L’aumento IVA andrebbe eliminato o quantomeno concentrato su tipologie di prodotti e servizi di livello medio-alto e alto (in altri termini, quelli acquistati da segmenti di popolazione che si accorgono poco o nulla degli incrementi di prezzo).

Conclusione (molto provvisoria): la presidenza Fillon potrebbe avere conseguenze economiche meno deleterie di quanto attualmente si teme. Detto ciò, per risolvere gli squilibri prodotti (alla Francia) dalle disfunzioni dell’Eurozona, servirebbe parecchio di più di un punto di maggior deficit per diciotto mesi. E a questo dubito che si arrivi.

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