mercoledì 29 novembre 2017

Che senso ha tenere una casa a zero gradi ?


“Nonostante la crisi, Pinco Pallino ce l’ha fatta e l’azienda xyz va a gonfie vele”. Quante volte avete letto o ascoltato considerazioni di questo genere sulla stampa “paludata” (il quartetto Corriere – Repubblica – Stampa – Sole) o sui telegiornali Rai ?

L’implicazione naturalmente è che la crisi non rende impossibile lavorare bene e trovare soddisfazioni dalla propria attività. E il messaggio sottilmente connesso è: non si lamenti chi non ce la fa, le opportunità esistono sempre, se avete problemi in fondo è colpa vostra.

Il punto, tuttavia, è che si sta mantenendo il sistema economico in situazione di carenza artificiale per quanto attiene alla diffusione del potere d’acquisto – in altri termini, si stanno contingentando senza necessità domanda, produzione e occupazione.

Certo, anche così qualcuno se la cava comunque discretamente. Ma è una situazione sensata, o accettabile ?

Immaginiamo una casa che si decide di non riscaldare – non perché non sia possibile, o troppo costoso, farlo. Semplicemente non lo si vuole. Così la temperatura (all’interno della casa) rimane costantemente a zero gradi per tutto l’inverno.

In quella casa abitano un baldo e atletico ventenne, un bambino e un anziano.

Il ventenne si infila tre golf uno sopra l’altro e tutto sommato non sta particolarmente male. Non è il massimo della comodità, ma il freddo non lo sente, o comunque è sopportabile.

Il bambino e l’anziano si ammalano. O peggio.

Certo, si può affermare che “chi aveva le capacità ce l’ha fatta comunque”, o che il bambino e l’anziano non avrebbero sofferto il freddo così tanto, se fossero stati anche loro ventenni in buona salute. E l’affermazione è vera, nel senso letterale del termine.

Ma che senso ha ?

Quello che non si spiega è perché si è deciso di lasciare la casa al freddo. Perché la spiegazione non c’è – o è così vergognosa da rendere inaccettabile metterla in evidenza

sabato 25 novembre 2017

E se le banche non compreranno i CCF ? un falso problema

Di tanto in tanto, riaffiora un dubbio in merito al comportamento delle banche nel momento in cui i Certificati di Credito Fiscale entreranno in circolazione.

Il progetto base, come descritto fin dal primissimo articolo che ho pubblicato sul Sole 24Ore, prevede di assegnare CCF sotto forma di titoli che danno diritto a sconti fiscali a partire da una data futura prestabilita (due anni dopo l’assegnazione).

I CCF saranno titoli negoziabili sui mercati finanziari: vale a dire, ricevo un CCF del valore facciale di mille euro, leggo che quota (ad esempio) il 95% del nominale e posso quindi, tramite la mia banca o un altro intermediario finanziario, venderlo in cambio di 950 euro.

Il dubbio che ogni tanto viene sollevato si sintetizza come segue: e se le banche non gradiranno detenere CCF ? magari perché la BCE decide di non accettarli come collaterale per le operazioni di rifinanziamento ? non si crea un blocco del meccanismo ?

In realtà è un equivoco. Non è per niente essenziale che le banche detengano CCF. E’ importante che i soggetti riceventi abbiano la possibilità di venderli in cambio di euro: il che richiede lo svolgimento, da parte di qualcuno, di una funzione di intermediazione.

Quello che si sta supponendo non è che le banche accettino di detenere i CCF in circolazione, fino all’importo massimo previsto di 200 miliardi. I CCF entreranno nel portafoglio dei risparmiatori italiani, che detengono attualmente (e si parla solo delle famiglie) oltre 4.000 miliardi di attività finanziarie.

E i 200 miliardi massimi di CCF non andranno a sostituire, se ci riferiamo al complesso dei risparmiatori, altre attività, ma ad aggiungersi. Saranno potere d’acquisto, nonché risparmio, addizionale.

L’intermediazione servirà solo in quanto potrebbe risultare agevole convertire i CCF in euro e spendere questi ultimi. Il che richiede un soggetto (che può benissimo essere un altro individuo) interessato a diversificare il suo portafoglio di investimenti, convertendo in CCF un po’ degli euro che possiede (e ottenendo, se il prezzo di mercato fosse il 95% del facciale come sopra ipotizzato, un 5% di rendimento in due anni – contro zero se si lascia la liquidità su un conto bancario o se si compra un BTP biennale).

Dico “potrebbe risultare agevole convertire i CCF in euro e spendere questi ultimi” perché con ogni probabilità si diffonderà anche, rapidamente, l’utilizzo diretto di CCF per comprare beni o servizi. Presumibilmente, esercizi commerciali dei tipi più vari (dalla grande distribuzione organizzata alle utilities ai rivenditori di carburanti eccetera) accetteranno i CCF, che rappresentano un valore sicuro (in quanto queste organizzazioni hanno flussi sistematici di pagamenti di imposte e tasse, per IVA, imposte e contributi pagate anche per conto dei dipendenti in qualità di sostituto d’imposta, eccetera).

Personalmente vedo con molto favore la diffusione, più ampia e rapida possibile, dell’utilizzo diretto dei CCF. Potrà anche essere data la facoltà di utilizzare carte elettroniche, “caricate” periodicamente con CCF, e distribuite gratuitamente a chi ne farà richiesta (e si tratterà probabilmente dei soggetti meno abituati a gestire transazioni finanziarie, sia pure molto semplici come la conversione di un titolo in euro).

Però la variabile temporale è critica, e per questo motivo ritengo che l’introduzione del CCF in forma di titolo negoziabile debba essere il primissimo passaggio, da effettuare nei tempi più brevi possibili. La diffusione mediante carte elettroniche ha tempi presumibilmente un po’ più lunghi, nell’ordine di alcuni mesi, mentre introdurre e quotare una nuova tipologia di titolo è un’operazione molto più rapida. Costantemente entrano sul mercato nuove tipologie e scadenze di BOT, BTP, CCT, CTZ, BTPi eccetera. E le piattaforme di intermediazione sono rodatissime.

Nell’eventualità (alla quale non credo) in cui il sistema bancario facesse resistenza non solo a detenere i CCF ma anche ad intermediarli, altri soggetti saranno più che desiderosi di inserirsi in questo nuovo segmento di mercato. Un ruolo importante potrebbe essere svolto dalla rete BancoPosta (controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti).


giovedì 23 novembre 2017

La flessibilità di emissione dei CCF


Un punto su cui è importante riflettere in merito al progetto CCF: nel presentarne i risultati, ho fatto spesso riferimento alle condizioni sotto le quali il programma si autofinanzia – nel senso che non genera alcun incremento di debito, perché il gettito addizionale derivante dalla ripresa economica compensa l’utilizzo dei CCF stessi quando giungono a scadenza.

Le proiezioni macroeconomiche più aggiornate (qui a pagina 13 e seguenti) mostrano che questo risultato si ottiene con un moltiplicatore fiscale pari a uno, purché contemporaneamente si verifichi un graduale recupero degli investimenti privati in rapporto al PIL, che li riporti in sei anni dal livello del 2016 (14,3%) al 15,9%. Che significa recuperare, tra il 2018 e il 2024, solo metà del calo che si è registrato rispetto al massimo pre-crisi del 2007 (17,6%).

Sono ipotesi fortemente prudenziali. Con la domanda in ripresa rispetto a un contesto di forte depressione come l’attuale, il moltiplicatore tende ad essere decisamente superiore all’unità. E il rimbalzo degli investimenti privati può senz’altro essere più rapido e più accentuato.

Ma va anche chiarito che non è neanche indispensabile ragionare in termini di autofinanziamento. Un ammanco rispetto agli obiettivi di stabilizzazione del debito pubblico (quello vero, cioè quello da rimborsare in euro) può essere coperto emettendo un maggior quantitativo di CCF in quell’anno.

Fino al momento in cui i CCF in scadenza sono solo una modesta frazione degli incassi pubblici totali, il rischio di inflazionare (cioè di svilire) i CCF non esiste.

E l’ipotesi base è di arrivare a emissioni massime di 100 miliardi annui, a fronte di incassi pubblici lordi per un totale di circa 900. L’11%. Se questa percentuale salisse per esempio a 130 / 900 = 14-15% circa perché occorre gestire una carenza di gettito di 30 miliardi (ipotesi che si verificherebbe solo in presenza di una recessione economica estremamente grave), il rapporto tra CCF che diventano utilizzabili in un dato anno e incassi pubblici lordi resterebbe comunque molto conservativo.

Detto altrimenti, non ci sarebbe il rischio di un ammontare di CCF in circolazione tale da creare un “intasamento” (ho i CCF ma non riesco a utilizzarli perché ne giungono a maturazione troppi in un determinato anno).

E’ quindi possibile bloccare una volta per tutte l’incremento del debito pubblico in moneta straniera che lo Stato italiano non emette (l’euro); ridurre costantemente il rapporto debito pubblico  lordo / PIL; rilanciare domanda, produzione e occupazione; il tutto senza rischiare un effetto di inflazionamento che eroda il valore dei CCF, anche in scenari congiunturali fortemente negativi.

E questo senza chiedere trasferimenti ai partner dell’Eurozona, né maggiori garanzie alla BCE, e senza nessuna espansione della base monetaria in euro.

domenica 19 novembre 2017

Non tutte le passività sono nate uguali...

Ho letto solo qualche giorno fa un articolo pubblicato in effetti ad aprile scorso, su “Scenari economici”, da Fabio Lugano. Vale la pena di prenderne spunto per chiarire una volta di più alcuni temi.

L’autore è scettico sul fatto che un progetto CCF / Moneta Fiscale possa costituire una soluzione stabile per l’Eurozona, in quanto l’incremento di potere d’acquisto da essi generato si tradurrebbe – in assenza di un riallineamento valutario – in squilibri nei saldi commerciali esteri.

Per qualche ragione che a me sinceramente riesce abbastanza misteriosa, questa obiezione continua a riaffiorare, nonostante le spiegazioni del caso siano state fornite non una ma svariate volte: a partire dal primissimo articolo pubblicato ormai cinque anni fa sul Sole 24Ore, dove per la prima volta ho presentato il concetto dei Certificati di Credito Fiscale. Articolo che addirittura era intitolato (un po’ impropriamente in realtà) “Certificati di credito per il cuneo”.

La proposta infatti è di emettere CCF non solo per rilanciare la domanda interna ma anche per abbassare il costo del lavoro effettivo, riducendo il cuneo fiscale a vantaggio delle aziende (oltre che dei dipendenti). Un mix appropriato di emissioni consente di espandere la domanda interna mantenendo invariati i saldi commerciali esteri.

A parte questo, forse ancora più significativo è un passaggio dove Fabio Lugano afferma che “la grande differenza tra Minibot e Moneta Fiscale è essenzialmente nel fatto che il Minibot non teme di chiamarsi “debito”, mentre la Moneta Fiscale e i CCF giocano su una differenza (??) tra “Passività” e “Debiti””. Secondo l’autore, una distinzione puramente formale.

Bene, la distinzione non è formale ma assolutamente di sostanza.

Sul piano strettamente tecnico-contabile, i CCF non sono in effetti neanche una passività soggetta a essere registrata a bilancio, come non lo sono i buoni sconti emessi da un supermercato. Ne avevo spiegato le ragioni qui.

Ma, si dirà, un CCF comporta comunque un impegno per lo Stato emittente: accettarlo a riduzione di tasse future. Dove c’è un impegno c’è una responsabilità – in inglese liability. E questa, al di là delle prassi contabili, e una forma di passività, giusto ? Non per niente nei bilanci anglosassoni l’attivo e il passivo sono denominati “assets” e “liabilities”, appunto.

Il punto che sfugge in questa argomentazione è che anche la moneta fiat, la moneta sovrana, è una liability. Uno Stato che emette la propria moneta si impegna ad accettarla. E in effetti la moneta emessa è contabilmente registrata al passivo dagli enti che la emettono – dalla Federal Reserve, dalla Bank of England, in generale da tutti gli istituti pubblici che emettono moneta nazionale.

La distinzione tra “passività” e “debito” non è affatto formale. E’ di enorme sostanza. Ci sono debiti sui quali rischio di essere forzato all’insolvenza, e ci sono passività rispetto alle quali l’insolvenza potrà sempre essere evitata, perché è lo Stato che le emette e che le gestisce.

I CCF da questo punto di vista equivalgono a una moneta nazionale fiat. L’impegno di accettazione potrà sempre essere onorato, qualunque sia il comportamento dei mercati finanziari. Non è concepibile un rischio di default connesso a una crisi dello spread come quella del 2011 per uno Stato che si finanzia emettendo CCF – così come non è concepibile per uno Stato che emette la propria moneta (e non è indebitato in moneta estera). E il motivo è che non c’è obbligo di rimborsare i CCF.

Questo non implica che si debbano emettere CCF in quantità infinita, così come non si deve emettere moneta nazionale fiat in quantità infinita. Oltre certi livelli – ovvero se distribuisco potere d’acquisto in misura superiore al potenziale produttivo dell’economia – non genero più produzione e occupazione, ma solo crescita dei prezzi (quindi inflazione a livelli indesiderati).

Ma il punto chiave è che la corretta gestione di un programma di rilancio dell’economia sia che avvenga mediante emissione di moneta nazionale fiat, sia che avvenga mediante emissione di CCF, impone di preoccuparsi dell’inflazione, ma non del rischio di default indotto da una crisi finanziaria (magari prodotta da fenomeni puramente speculativi).

Rilanciare l’economia senza mettere in mano ai mercati finanziari nuovi titoli di debito, espressi in una valuta emessa da terzi, fa una differenza enorme. Altro che “distinzione puramente formale”…


venerdì 17 novembre 2017

lunedì 13 novembre 2017

Se mi indebito per comprare casa


Se io (privato) accendo un mutuo per comprare casa, mi ritrovo con un debito e con un attivo (la casa). Non mi arricchisco né mi impoverisco (se ho pagato un prezzo corretto per la casa). Però ho aumentato il mio debito, il che comporta un rischio finanziario (non riuscire a pagare il debito).

Se uno Stato s’indebita per costruire un ospedale, la situazione può sembrare analoga. Il rischio finanziario dello Stato aumenta. L’operazione ha senso (o meno) purché l’attivo (l’ospedale) abbia un valore superiore al debito contratto.

Questo dal punto di vista dello Stato, inteso come pubblica amministrazione nazionale.

Ma vediamo invece le cose dal punto di vista della collettività nazionale, ipotizzando che l’ospedale venga costruito mettendo al lavoro persone, aziende, impianti italiani (senza generare, cioè, un peggioramento dei saldi commerciali esteri).

In questo caso si crea reddito per chi ha lavorato alla costruzione dell’ospedale: e il maggior reddito è pari al maggior debito dello Stato. L’impatto finanziario netto per la collettività nazionale è nullo. Ma la collettività nazionale si ritrova con un ospedale in più.

C’è, si dirà, maggior rischio finanziario per lo Stato, perché il suo debito si è incrementato. Ma questo non è più vero se lo Stato emette la moneta in cui si indebita – o se emette moneta e paga direttamente con quella persone, aziende e impianti.

In questo caso, lo Stato non assume debito che potrebbe non riuscire a rimborsare. Il problema che può sorgere è casomai quello dell’inflazione: se per costruire l’ospedale ho dovuto distogliere persone, aziende, impianti da altre attività, si produrrà una scarsità di offerta di altri beni, il che ne aumenterà i prezzi. Effetto a ciò connesso è che qualche altro bene non verrà prodotto: l’inflazione sarà in effetti la conseguenza della scarsità di risorse produttive. Avrò un ospedale in più, ma verrà a mancare qualche altro bene o servizio, e i prezzi aumenteranno.

Ma se ho costruito l’ospedale mettendo al lavoro persone, aziende, impianti che altrimenti sarebbero rimasti inattivi, non creo scarsità di offerta di nessun altro bene o servizio, e nemmeno, quindi, impatti significativi sull’inflazione.

In queste condizioni – tipiche di un contesto di forte disoccupazione e di massiccio sottoutilizzo delle risorse produttive, come oggi in Italia - costruire un ospedale utilizzando risorse produttive nazionali, pagate in moneta nazionale, porta ai seguenti risultati:

un ospedale in più

incremento dell’occupazione

incremento dei redditi della collettività nazionale

nessun incremento dell’indebitamento statale

nessun incremento del rischio finanziario dello Stato

nessun incremento indesiderato dell’inflazione.


mercoledì 8 novembre 2017

Risolvere le disfunzioni dell'eurosistema

Presentazione che utilizzerò per il convegno del prossimo sabato, 11 novembre, a Vicenza (veniteci se siete in zona, o se avete occasione di passarci !)

Qui le slides (grazie a Francesco Chini per la collaborazione).

lunedì 6 novembre 2017

Il PD e le ingenuità su Renzi


Si stanno delineando risultati ampiamente negativi – come nelle previsioni, del resto – per il PD, sia nelle elezioni regionali siciliane che nelle “municipali” di Ostia.

In queste ore, i commenti di politici, elettori, attivisti, simpatizzanti di area PD sono in larga misura improntati a un leitmotiv – espresso in forme più o meno velate o esplicite o sanguigne, a seconda dei casi: il problema è Renzi, bisogna cambiare lui per “invertire la tendenza”.

Alcuni, elaborando sul tema, sintetizzano il tutto affermando che “Renzi ha fatto politiche che cercavano di sottrarre consensi al centrodestra, ma così facendo invece l’ha fatto crescere”.

Questi commenti riflettono un considerevole grado di scollamento dalla realtà.

Il declino elettorale del PD è dovuto a due fattori principali: la pessima situazione economica e la discutibilissima gestione della crisi migratoria.

Invertire la tendenza significa staccarsi dai vincoli dell’Eurosistema (nel primo caso) e adottare politiche decisamente meno orientate all’accoglienza a tutti i costi (nel secondo).

Ora, Renzi può risultare poco simpatico e naturalmente si può criticarlo. Ma le proposte alternative in sede PD, che darebbero luogo a un cambiamento netto di tendenza, dove sono, e chi le promuoverebbe ?

Altrimenti detto: sia sugli eurovincoli che sulla crisi migratoria, qualsiasi leader alternativo a Renzi (a meno che non emerga un nome totalmente nuovo, di cui non si percepisce la minima traccia) porterebbe il PD dove ?

Su un percorso di ancora maggiore acquiescenza a Bruxelles per quanto attiene all’economia, e di ancora maggiore apertura a politiche migratorie percepite, da vastissimi segmenti della popolazione italiana, come estremamente pericolose e mal gestite.

Sugli eurovincoli economici, in particolare, Renzi ha fatto decisamente troppo poco – molte dichiarazioni e pochi fatti – ma quel poco è andato quantomeno in una direzione meno sbagliata rispetto a quanto si sente affermare dai vari Franceschini, Orlando, Martina eccetera.

Il PD è in caduta verticale di consensi perché le sue politiche sono state, in questi anni, antisociali e deleterie per il tessuto economico-sociale italiano. Ma l’origine di tutto questo non è stato Renzi in particolare, ma il PD nel suo complesso.

E non erano politiche in grado di “prendere consensi a centrodestra”. L’elettorato, di qualsiasi colorazione, non potevano che alienarlo. La finalità, del resto, non era prendere consensi in Italia, ma perderne il meno possibile compatibilmente con l’esigenza di obbedire a ordini di provenienza esterna.

Presentarsi alle prossime elezioni politiche con un leader diverso da Renzi significa non comprendere, o rifiutarsi di ammettere, quali profonde cause di disagio il PD abbia alimentato nella popolazione italiana, in questi ultimi cinque anni (anzi sei, va considerato anche l’anno di governo Monti).

Sostituire Renzi significa semplicemente sperare di incontrare un “affabulatore” di masse migliore di lui (difficile) o magari confidare che Renzi faccia da parafulmine e da catalizzatore di un sentimento di profonda insoddisfazione che è in realtà legato non alla persona, ma alle scelte politiche del suo partito.

Dubito che funzioni.

Ma non scommetterei neanche un centesimo sulla capacità del PD di identificare le cause del declino elettorale, né tantomeno di intervenire modificando non la facciata con cui si presenta alla cittadinanza italiana, bensì la sostanza della sua proposta politica.


venerdì 3 novembre 2017

I destabilizzanti surplus commerciali

La Germania sfora, da parecchi anni, il limite massimo del 6% previsto da trattati e regolamenti UE per il rapporto tra surplus commerciale e PIL. E lo sfora di parecchio, raggiungendo sistematicamente livelli dell’8-9%, senza che la commissione UE si senta in dovere di sollevare il problema.

Ma la Germania, al contrario di alcuni anni fa, realizza questo surplus in larghissima parte fuori dall’Eurozona. Il saldo export – import con il resto dell’unione monetaria europea, che costituiva il grosso dell’attivo fino al 2012, è attualmente quasi in pareggio.

L’austerità “prescritta” e adottata dai paesi mediterranei dell’Eurozona – tra cui, anche e soprattutto, l’Italia – ha calmierato l’export tedesco verso questi paesi. Le aziende tedesche l’hanno compensato con maggiori esportazioni verso America e Asia, anche grazie all’indebolimento dell’euro che si è verificato in concomitanza (a partire da fine 2014) con le aspettative, e poi con l’avvio, del programma di Quantitative Easing da parte della BCE.

Se il surplus tedesco sfora i limiti, ma grazie soprattutto all’interscambio extra Eurozona, è giusto per questo non intervenire sullo sforamento (in quanto non si creano problemi all’interno dell’unione monetaria europea) ?

No. Un surplus commerciale molto alto realizzato da un’area economica rilevante, quale è l’Eurozona, è destabilizzante perché per definizione impone ad altri paesi di essere in deficit.

E un alto surplus da parte della Germania, anche se realizzato prevalentemente fuori dall’Eurozona, implica una delle seguenti due cose.

Se gli altri paesi dell’unione monetaria europea non sono, nel loro complesso, in deficit commerciale, deve essere in deficit – e in misura rilevante - il resto del mondo. In altri termini, il totale dell’Eurozona è in forte surplus, e il resto del mondo è in forte deficit. Questa è la situazione odierna.

Altrimenti, l’Eurozona può essere in equilibrio solo a condizione che il surplus tedesco verso il resto del mondo sia compensato da un deficit (sempre verso il resto del mondo) degli altri stati membri.

In sintesi:

Prima possibilità (le cose come stanno oggi): Germania in surplus verso il resto del mondo ma non verso il resto dell’Eurozona; resto dell’Eurozona complessivamente in equilibrio; QUINDI resto del mondo in deficit.

Seconda possibilità (riequilibrio Eurozona verso resto del mondo ma senza che la Germania accetti di ridurre il suo surplus): Germania in surplus verso il resto del mondo ma non verso il resto dell’Eurozona; QUINDI resto dell’Eurozona in deficit verso il resto del mondo.

L’alto surplus tedesco è, quindi, comunque destabilizzante, e dovrebbe essere contenuto.

E la Germania potrebbe tranquillamente agire in questo senso, non (necessariamente) riducendo le sue esportazioni, ma espandendo la propria domanda interna (per esempio abbassando le tasse o aumentando gli investimenti pubblici) e quindi le importazioni.

Alcune doverose precisazioni: non penso proprio che la Germania farà nulla di tutto questo. Ed è quindi sterile chiederlo: anche perché l’Italia è in grado di uscire dai vincoli dell’Eurosistema e di risolvere la crisi senza chiedere nulla alla Germania.

Con emissioni di Moneta Fiscale che rilancino la domanda interna italiana e in parte, nella misura opportuna, la competitività delle nostre aziende (riducendo il cuneo fiscale effettivo), l’Italia può produrre una notevole ripresa della sua produzione e della sua occupazione, senza alcun rilevante impatto negativo sui saldi commerciali esteri (oggi attivi, peraltro, per oltre 50 miliardi all’anno).

Rimarrà l’effetto destabilizzante degli squilibri commerciali tra Germania e resto del mondo: problema che non possiamo risolvere noi, ovviamente, e che costituisce un punto di dibattito principalmente tra Germania e USA.

Va anche detto che gli USA sono una grande economia, ed assorbire buona parte di un surplus tedesco di 250 miliardi all’anno non li entusiasma (anzi) ma è un’inefficienza con cui possono convivere (che poi lo vogliano è un altro discorso: ma qui, ripeto, l’Italia può poco o nulla).

Quanto sopra, tuttavia, mette in evidenza che è fuori strada chi insiste a dire "l’Italia dovrebbe una buona volta rispettare le regole, come fa la Germania”. Il tema dei surplus commerciali è una prova (e non certo l’unica) che l’atteggiamento tedesco nei confronti delle regole UE è molto semplice: le rispetta (e strilla per richiederne il rispetto) dove le conviene.

Altrimenti, non si preoccupa neanche più di tanto di contestarle. Le ignora.


mercoledì 1 novembre 2017

Supermercati, buoni sconto e CCF

Piccolo addendum a un post di qualche giorno fa - addendum non (troppo) tecnico ma credo utile per mettere ulteriormente a fuoco la natura non debitoria dei CCF.

S’è visto che i buoni sconto emessi da un’azienda di distribuzione non rientrano nell’indebitamento finanziario. In effetti non sono indebitamento a nessun titolo: i principi contabili internazionali (gli IFRS, International Financial Reporting Standards) non prevedono nemmeno che debbano essere registrati a bilancio.

Nel momento in cui avrà luogo un’operazione di vendita, e il compratore presenterà il buono sconto per ottenere una riduzione del prezzo rispetto al listino, l’azienda di distribuzione registrerà un fatturato pari all’effettivo corrispettivo pagato. Tutto qui.

Del resto, lo stato di salute finanziaria di un’azienda di distribuzione dipende, naturalmente, anche dall’ammontare del suo indebitamento. Ma si parla dell’indebitamento che tale effettivamente è: del debito, in altri termini, che deve essere rimborsato in moneta.

Un’azienda di distribuzione non va in insolvenza perché ha emesso buoni sconto. I buoni sconto sono uno strumento di promozione delle vendite. Può essere, a questo scopo, più o meno efficace: ma non incrementa il rischio finanziario dell’emittente.

Avete mai sentito parlare di una catena di supermercati fallita per aver emesso troppi buoni sconto ???

Lo stesso vale per i CCF. Ed è quindi perfettamente coerente e comprensibile che Eurostat non li consideri debito finanziario.

E del resto, l’architettura dell’Eurosistema è finalizzata a limitare il rischio di insolvenza degli stati membri. Il Fiscal Compact richiede che tutti gli stati membri dell’Eurozona raggiungano il pareggio di bilancio e riducano, gradualmente ma regolarmente, il rapporto tra debito pubblico lordo e PIL fino al 60%.

Lo scopo di questa richiesta è limitare il rischio che singoli stati possano non essere in grado di rifinanziare il proprio debito pubblico, con le prevedibili conseguenze in termini di instabilità e di turbolenze finanziare.

Se uno stato emette CCF e produce una ripresa di produzione, occupazione e PIL, mantenendo nello stesso tempo in equilibrio il saldo tra incassi e pagamenti in euro, ed evitando quindi qualsiasi incremento del debito pubblico (quello VERO, quello che realmente è debito: quello da rimborsare in euro) le finalità del Fiscal Compact risultano conseguite.

Con il “piccolo” effetto collaterale di avviare una significativa ripresa dell’economia, e di risolvere, finalmente, le pesantissime disfunzioni dell’Eurosistema…