giovedì 26 maggio 2016

L’Eurozona ha bisogno di un euro flessibile, non di “un po’ di flessibilità”



Biagio Bossone - Marco Cattaneo


“Flessibilità” è in concetto molto in voga, oggi, nell’Eurozona. La Commissione Europea ha accettato la maggior parte delle richieste italiane in merito all’esclusione di alcune voci straordinarie – tra cui i costi per gestire la crisi migratoria – dai limiti di deficit pubblico. In tal modo, l’Italia eviterà di adottare azioni fiscali restrittive nel 2016.

Nel frattempo, la Spagna ha mancato i suoi impegni di deficit già nel 2015. Il livello registrato – 5,2% del PIL – supera gli obiettivi concordati (4,5%) che pure erano già una concessione rispetto ai livelli molto più stringenti previsti nel Patto di Stabilità e Crescita (PSC) e nel Fiscal Compact (FC). La Commissione potrebbe quindi sanzionare e multare la Spagna, ma nessuno si aspetta che questo, in realtà, si verifichi.

E’ chiaro che applicare le regole fiscali è un problema, in Europa, e il motivo è facile da comprendere. Il consolidamento fiscale è stato imposto a partire dal 2011, molto prima che l’Eurozona avesse pienamente recuperato gli effetti della crisi finanziaria del 2008. Molti stati hanno, di conseguenza, subito una pesante, doppia recessione. La domanda è tuttora depressa, e la disoccupazione inaccettabilmente elevata.

Alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona sono necessarie politiche di espansione della domanda, che richiedono temporanei incrementi di deficit e debito pubblico (in rapporto al PIL), per accelerare fortemente la crescita e mettere fine alla depressione. Ma non esiste il consenso politico necessario per rivedere il PSC e il FC.

Di conseguenza, la flessibilità accordata dalla Commissione UE è un classico “calcio al barattolo”. Le regole fiscali non sono né applicate né ridefinite. L’Eurozona, nel suo complesso, continua a ristagnare. Ci sono buone probabilità che non ne derivi un disastro finché il “whatever-it-takes” della BCE e il programma di Quantitative Easing eviteranno attacchi speculativi sui debiti sovrani, ma la carenza di crescita, e di opportunità di occupazione, alimentano l’Euroscetticismo e rafforzano i partiti anti-sistema.

Tra pochi mesi, a ottobre, i governi inizieranno a proporre i budget 2017, da discutere in sede parlamentare e da sottoporre alla Commissione UE. Date le regole vigenti, è molto facile prevedere un’ulteriore serie di “esercizi di differimento”.

Come è possibile evitarlo ? Si può dare all’Eurozona un assetto soddisfacente e permanente ?

E’ possibile, purché l’Eurozona stessa sia riformata in modo da diventare flessibile. Una modalità efficace consiste nell’emissione, da parte di una serie di stati, di Certificati di Credito Fiscale (CCF) nazionali.

I CCF sono titoli che danno diritto al possessore di ridurre pagamenti per imposte, dovuti a partire da una certa data futura: per esempio, due anni dopo l’emissione dei CCF medesimi. Verrebbero assegnati gratuitamente ai lavoratori (per incrementare il loro reddito) e alle aziende (per ridurre i costi di lavoro). Una parte dei CCF emessi può anche contribuire al finanziamento di spese sociali e investimenti pubblici.

Essendo titoli negoziabili e trasferibili, i possessori dei CCF potranno venderli in cambio di euro, con uno sconto (presumibilmente modesto, poiché il mercato sarà ampio e liquido) rispetto al valore facciale. Il reddito disponibile e il patrimonio netto degli assegnatari di CCF si incrementerà immediatamente, con un effetto di sostegno per domanda, consumi e investimenti aziendali. I redditi procapite e l’occupazione cresceranno in modo permanente, mettendo fine alla depressione dell’Eurozona.

Sotto il profilo fiscale, il maggior PIL – prodotto dalla più elevata domanda e dagli effetti moltiplicativi sul reddito – incrementerà le entrate pubbliche nei due anni precedenti alla data di utilizzabilità dei CCF. E anche successivamente, stime basate su ipotesi prudenziali mostrano che le maggiori entrate lorde supereranno gli sconti conseguiti dai titolari di CCF.  

Va sottolineato che i CCF non sono debito: i paesi che li emettono non li devono rimborsare, e non si vengono quindi a creare rischi di default. I CCF non implicano rischi per la stabilità finanziaria dell’emittente.

La crescita nominale del PIL indotta dai CCF permette ai singoli paesi di rispettare gli impegni assunti in base al PSC e al FC, riducendo in modo puntuale e regolare il rapporto debito pubblico / PIL. Il livello e la composizione delle future emissioni di CCF potranno essere gestiti in modo da stabilizzare ogni singola economia nazionale, conseguire adeguati livelli di occupazione, e migliorare la competitività delle aziende (in quanto l’allocazione di CCF alle imprese ridurrà i costi di lavoro). Questo consentirà ad ogni paese di evitare che la crescita della domanda domestica produca sbilanci commerciali esterni.

Un’ampia gamma di strumenti sarà inoltre disponibile agli stati per gestire temporanei scostamenti dagli obiettivi di consolidamento fiscale. Ai possessori di CCF potrà essere offerto di posporne l’utilizzo (per conseguire sconti d’imposta) in cambio di un incremento di valore facciale. Inoltre, CCF di lunga durata potranno essere emessi per rifinanziare debito in euro, accelerando così la riduzione dello stock totale di debito pubblico in circolazione.

Nell’evento, improbabile, che tutto ciò sia insufficiente, ogni singolo paese potrà applicare “clausole di salvaguardia” aumentando le tasse da pagare in euro, o contraendo la spesa pubblica, e incrementando nello stesso tempo le emissioni di CCF. Queste azioni sarebbero di natura non-prociclica: non implicherebbero gli effetti recessivi dei limiti fiscali attualmente previsti dalle regole dell’Eurozona (effetti recessivi che sono il motivo per cui questi limiti sono, in pratica, difficili o impossibili da applicare). 

Un “Eurosistema flessibile”, efficiente e sostenibile, è un obiettivo realizzabile. I CCF possono essere lo strumento chiave per raggiungere questo obiettivo. Non c’è tempo da perdere per agire, e per mettere fine alla depressione dell’Eurozona.

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