sabato 5 ottobre 2013

Birra, Cina e welfare state

In merito allo stato attuale dell’economia, non è certo difficile, oggi, imbattersi in commenti e citazioni “presunte molto assennate”.
 
Per intenderci, il tipo di affermazione che suona saggia a un distinto signore, con una buona posizione professionale, di quelli che leggono il Corriere della Sera, che ritengono Panebianco un profondo politologo, che hanno visto in Monti (al suo arrivo) il salvatore della patria, che su Alesina e Giavazzi cominciano ad avere qualche dubbio ma insomma, li considerano ancora economisti di vaglia.
 
Prendiamo ad esempio questa. L’ho sentita attribuire all’Economist e ad Angela Merkel, non so chi abbia copiato da chi o se magari tutti e due da qualcun altro (ma non importa).
 
“L’Europa ha il 7% della popolazione mondiale, il 25% del PIL, ma il 50% delle spese per welfare. E’ insostenibile”.
 
Forte vero ? leggi questa frase e come fai ad avere ancora dubbi che il welfare state vada tagliato ?
 
Però se magari la metti a confronto con quest’altra…
 
“la Germania ha l’1% della popolazione mondiale, il 4% del PIL ma consuma il 10% di tutta la birra. Quindi aboliamo l’Oktoberfest”.
 
Il livello di analisi economica è esattamente lo stesso.
 
Dietro alle affermazioni sulla necessità ineluttabile di tagliare il welfare (e le retribuzioni) c’è un concetto del genere: vent’anni fa Cina e India erano puntini minuscoli sulla mappa dell’economia mondiale, ora sono cresciuti e competono grazie a bassi salari e a bassi livelli di protezione sociale. Quindi noi dobbiamo allinearci al ribasso, giusto ?
 
Ma a che cosa devono essere correlati retribuzioni e welfare, in un determinato paese ? alla capacità dell’economia di produrre beni e servizi. E questa capacità è calata in Occidente rispetto a vent’anni fa ? NO. Anzi è cresciuta, perché la tecnologia e l’inventiva umana non si fermano.
 
L’emergere di paesi economicamente meno sviluppati è sicuramente un fenomeno di grande importanza. Ma se io ho una capacità di produzione otto volte superiore a quella del mio vicino, e quello a un certo punto recupera e raddoppia, quindi la differenza da otto scende a quattro, significa che io devo RIDURRE il mio benessere ? e perché mai ?
 
Certo, esistono il commercio e la concorrenza internazionale. I paesi emergenti prenderanno quota in certe produzioni, tendenzialmente quelle a minor valore aggiunto. I paesi più progrediti dovranno riorientarsi e riconvertirsi.
 
Processi non semplici, da gestire nei tempi e nei modi.
 
Ma nei paesi emergenti intanto si diffonde benessere, crescono i segmenti di popolazione con capacità di consumo a livello occidentale, si aprono spazi per i produttori (occidentali) di beni a maggior contenuto di qualità, tecnologia eccetera.
 
Le economie occidentali, i loro settori, le loro aziende, hanno necessità di spostare la composizione della loro attività. Ma NON di abbattere le retribuzioni e il welfare: l’effetto principale di questo è, di gran lunga, la caduta dei consumi e della domanda interna. E nessun fenomeno di recupero di competitività nei confronti dell’estero è in grado di compensarlo.
 
Soprattutto se, come oggi, la domanda è già a livelli depressi, e per di più queste azioni vengano intraprese contemporaneamente da tutti i paesi in difficoltà.
 
La pretesa di risolvere la crisi riducendo il sistema di protezioni sociali ha lo stesso senso (è in effetti una variante sul tema) della strategia di deflazione salariale. E’ controproducente, insostenibile e autodistruttiva.
 
Modificare il sistema monetario reintroducendo flessibilità (quella che l’euro com’è oggi non contempla), ripristinare domanda e PIL, riportare il sistema economico al suo potenziale di produzione e occupazione. Questi sono gli obiettivi: totalmente raggiungibili, Cina o non Cina.
 
E totalmente compatibili con il mantenimento del welfare state: il PIL potenziale italiano è 300 miliardi superiore all’attuale. E pensiamo di non poterci permettere il welfare ? chi lo afferma è fuori strada.
 
Tutto questo, va precisato, non ha nulla a che vedere con la dialettica pubblico / privato, cioè se determinate forme di spesa sociale debbano essere erogate dallo stato, garantite dallo stato ma erogate da privati, o addirittura lo stato se ne debba disinteressare.
 
Prendiamo la sanità, per esempio. Può esistere un servizio sanitario pubblico (come in Italia e in molti paesi europei), un sistema in cui lo stato garantisce livelli minimi di copertura sovvenzionando il costo dell’assicurazione sanitaria privata (grosso modo il modello USA) o, in astratto, lo stato potrebbe non occuparsene affatto.
 
Quest’ultimo modello non lo adotta, credo, nessuno. Ma se fossimo così massimalisti sulle virtù del privato da prenderlo in considerazione, la conseguenza economicamente corretta sarebbe di azzerare la spesa sanitaria pubblica (sia per erogare il servizio che per sovvenzionare forme di assicurazione) e di conseguenza anche i contributi prelevati per finanziarla.
 
L’approccio ultraliberista (nel senso corretto del termine) portato all’estremo equivale a: spesa pubblica molto più bassa, reddito disponibile per i cittadini molto più alto. Ma questo non cambia i redditi lordi, né il costo totale del lavoro.
 
Sarebbe la via “Margaret Thatcher” portata alle conseguenze ultime. Che io NON condivido in primo luogo sulla base di considerazioni di equità e di solidarietà.
 
Ma che per di più non regge alla prova dei fatti. Confrontiamo l’Italia, dove la maggior parte dei servizi sanitari sono erogati dal pubblico, e gli USA, dove sono gestiti dal privato.
 
Ebbene l’Italia, rispetto agli USA (e anche alla Germania, per la verità) ha: una spesa sanitaria pro-capite, e in rapporto al PIL, minore; una mortalità infantile inferiore; e una durata media della vita più elevata.
 
Tuttavia mi preme rimarcare un’altra cosa. Quello che ho definito “ultraliberismo” (spesa pubblica molto più bassa, reddito disponibile per i cittadini molto più alto) NON è la via che, oggi, si sta cercando di percorrere in Europa.
 
La via che si sta cercando di percorrere è MOLTO peggio. Smantellamento delle protezioni sociali per competere AL RIBASSO contro i paesi emergenti.
 
Questa, sotto il profilo sia economico che sociale, è una strada disastrosa, iniqua e insostenibile.

36 commenti:

  1. Concordo totalmente. Parola per parola.

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    1. Quando tutto questo sarà finito, le politiche adottate nell'eurozona, periodo 2011-201x (x essendo un numero maggiore o uguale, ma il più vicino possibile, a 3) saranno ricordate come uno dei più significativi esempi storici di follia economica.

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  2. Da precisare, ad onor del vero, che a rendere la durata media della vita più elevata in Italia concorre sicuramente una migliore alimentazione rispetto agli altri due Paesi presi a confronto. Senza nulla togliere alla corretta analisi dell'articolo, sia chiaro.

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    1. Certamente, i fattori alimentari giocano a favore dell'Italia, e anche quelli genetici. Ma se la sanità pubblica italiana fosse mediocre come spesso viene descritta (quando non scadente o disastrosa...) i confronti con l'estero darebbero risultati ben diversi.

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    2. Secondo la classifica di Bloomberg il sistema sanitario italiano è per efficienza
      il sesto migliore del mondo.

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    3. E anche meglio secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Poche cose fanno più danno all'Italia del nostro hobby di autodenigrarci (chissà perché),

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    4. "Poche cose fanno più danno all'Italia del nostro hobby di autodenigrarci"
      Sacrosanto, Marco, sacrosanto.
      Dovrebbero scolpirla sull'Altare della Patria, questa frase.

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    5. ... sostituendo "hobby" con "consuetudine" per opportunità linguistica.

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    6. Giusto ! (compresa la correzione linguistica...)

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  3. Esimio dott: il welfare da tagliare a cui la Merkel allude è sempre quello degli altri, mica della Germania. ça va sans dire.

    Ed ecco spiegata l'apparente follia della frase, che si può comodamente riassumere anche così: fare i virtuosi col welfare altrui.

    La saluto.

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    1. Se non è folle che lo dica la Merkel, e forse neanche l'Economist, che dire di MontiLettaGiavazziAlesina ? ah già anche loro tagliano il welfare degli altri... che sono altri connazionali in questo caso, ma si vede che non importa...

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  4. Segnalo su questo tema questo articolo di Krugman.

    E' corretto pensare che se il mercato valutario fosse libero di convergere verso l'equilibrio tra domanda e offerta tutti i vantaggi competitivi di uno stato rispetto ad un altro verrebbero cancellati?

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    1. Non è solo una questione di mercato valutario, ma di politiche macroeconomiche adottate dai vari paesi. Il punto essenziale è che ogni stato assicuri un ammontare di domanda interna adeguato ad assicurare un alto e stabile livello di occupazione. Le politiche valutarie sono un modo (ma non l'unico, la tassazione del lavoro è un altro) per far sì che i saldi commerciali esteri siano in equilibrio. A questo punto i paesi che partono da livelli di produttività più bassi cresceranno nei segmenti produttivi tecnologicamente e qualitativamente meno evoluti, ma i paesi avanzati riposizioneranno senza traumi lavoro e risorse produttive verso quelli a maggior valore aggiunto. Il modello che è stato seguito dalla UE (e già vent'anni fa questa concezione erronea, ammesso che si sia trattato di un errore in buona fede, era evidente - vedi la citazione di Delors nell'articolo di Krugman) parte invece dal presupposto, TOTALMENTE INFONDATO, che competere con i paesi emergenti richieda di adeguare verso il basso gli standard retributivi e di welfare dei paesi più evoluti.

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    2. Grazie per la spiegazione, il tema mi affascina perché sembra avere dei risvolti inattesi e contro-intuitivi. Non mi è molto chiara una cosa: i paesi già sviluppati devono attivamente cercare di spostarsi su produzioni a maggiore valore aggiunto per "sopravvivere" economicamente oppure questo spostamento è una dinamica più o meno spontanea? (Può anche non esserci nessuno spostamento?)

      L'idea che mi ero fatto è che se i tassi di cambio reali sono in equilibrio tra un paese sviluppato e un paese in via di sviluppo nessuno dei due dovrebbe avere un vantaggio competitivo. Se i tassi di cambio reali invece avvantaggiano il paese arretrato allora vuol dire che c'è una distorsione nel mercato valutario. Sbaglio a pensare così?
      O magari il tasso di cambio tra le valute essendo il risultato di una media non riesce ad allineare i tassi di cambio reali di tutti i prodotti per cui per alcuni si crea una differenza delle competitività in un senso o in un altro? (Questo spiegherebbe la "specializzazione" dei due paesi su diversi livelli di tecnologia).
      In ogni caso il tasso di cambio "giusto" dovrebbe comunque portare il saldo delle partite correnti a zero, e quindi non dovrebbe esserci nessun drenaggio complessivo di risorse e di mercato da parte dei paesi emergenti.

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    3. Sul primo punto, la possiamo considerare una dinamica spontanea: i paesi emergenti crescono nei settori a basso valore aggiunto facendo leva su costi di lavoro più bassi; il loro sviluppo li mette gradualmente nelle condizioni di alzare i livelli di consumo, anche dal punto di vista qualitativo; e i paesi più avanzati spostano di conseguenza le loro produzioni, uscendo da settori a basso valore aggiunto e crescendo nei beni di lusso e nei segmenti a maggior tecnologia. Le politiche industriali dovrebbero agevolare questa transizione rendendo la riallocazione delle risorse umane (in primo luogo) e tecniche il più possibile priva di effetti negativi, soprattutto per le persone.
      A questo si collega (è lo stesso concetto, in effetti) quanto dici successivamente: "il tasso di cambio tra le valute essendo il risultato di una media non riesce ad allineare i tassi di cambio reali di tutti i prodotti per cui per alcuni si crea una differenza delle competitività in un senso o in un altro? (Questo spiegherebbe la "specializzazione" dei due paesi su diversi livelli di tecnologia)": è proprio così.
      Che il tasso di cambio "giusto" debba portare a zero il saldo delle partite correnti è invece un po' troppo una semplificazione. Un paese che cresce più rapidamente per esempio giustifica l'afflusso di risorse esterne per investimenti e quindi partite correnti in deficit (non all'infinito e per livelli eccessivi, peraltro). Poi ci sono i movimenti finanziari che possono spingere al rialzo il cambio e contemporaneamente portare in deficit le partite correnti, ad esempio perché c'è una fase di "entusiasmo" per determinate forme di investimento in un paese. Vedi gli USA durante la bolla NASDAQ nel 1998-2000... e sono situazione potenzialmente destabilizzanti.

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    4. Tu dici che "i paesi emergenti crescono nei settori a basso valore aggiunto facendo leva su costi di lavoro più bassi". Ma i costi del lavoro bassi non dovrebbero corrispondere (nel settore "tradable") a una produttività più bassa? Se è così non dovrebbe esserci nessun vantaggio competitivo... A meno che non parliamo di beni "tradable" su cui il paese emergente ha eguagliato la nostra produttività... però se ci ha eguagliato su quei beni e non nel PIL pro capite dovremmo dedurre che noi abbiamo già altre produzioni su cui il paese emergente non ci sta ancora eguagliando (e che tengono alti i nostri salari reali rispetto ai loro). Ha senso quello che dico?

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    5. Appunto, esistono vari settori: semplificando, quelli a maggior intensità di lavoro e quelli a maggior intensità di capitale (che vuol dire anche tecnologia e know-how). I costi del lavoro relativi, se non "drogati" da cambi anomali, riflettono la media delle due situazioni. Il che porta i paesi emergenti a essere più competitivi sui primi (dove per esempio hanno salari ad esempio pari al 50% dei paesi avanzati ma produttività pari al 75%) e meno sui secondi (salari al 50%, produttività al 25%).

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    6. Ok ora credo di avere le idee più chiare. In pratica la nostra maggiore produttività nei settori ad alta intensità di capitale (rispetto mettiamo alla Cina) spinge in alto i nostri salari e prezzi (per effetto Balassa-Samuelson) e ci rende meno competitivi nei settori ad alta intensità di lavoro, senza però che questo sia sufficiente a spingere i salari e i prezzi in basso (o il tasso di cambio in basso).

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    7. Però nello scenario che ho rappresentato investire in produzioni tecnologiche non è una "risposta" alla nostra perdita di competitività nei settori ad alta intensità di lavoro, al contrario sembra essere la causa di quella perdita di competitività.

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    8. Non mi pare, gli investimenti (se non sono completamente sballati... ma diamo credito agli imprenditori di saper mettere in atto scelte mediamente corrette !) migliorano la competitività.

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    9. La mia idea era questa:
      - gli investimenti nel settore ad alta intensità di capitale aumentano il pil pro capite
      - l'aumento del pil pro capite (per effetto Balassa-Samuelson) fa crescere i salari medi (e il tasso di cambio)
      - la crescita dei salari medi nei settori ad alta intensità di lavoro rende questi settori meno competitivi rispetto agli stati con PIL pro capite più basso

      Quindi nel complesso abbiamo che l'investimento tecnologico (oltre ad aumentare la nostra ricchezza media) diventa anche la causa del problema che sperimenta il settore non tecnologico. Sbaglio?

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    10. Questo è sicuramente vero, e si gestisce agevolando la transizione da settori a basso valore aggiunto a settori ad alto contenuto di tecnologia e know-how. Pesando il meno possibile sulla forza lavoro, agevolando gli interventi di formazione post-scolastica, eccetera.

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  7. 26) Signor Cattaneo,i neo liberisti dicono che Gli Stati Uniti d'America sono un esempio da seguire per i seguenti dati:
    A) la classe media è 2,5 volte più ricca della nostra.
    B) La fascia più ricca è decine di volte più ricca della nostra fascia più ricca.
    C) La povertà è cresciuta con Obama , quando Bush lasciò l'incarico la disoccupazione era al 9% mentre ora grazie a questo Governo socialista è al 14%.
    Cosa ne pensa ?i liberisti hanno ragione ordunque?
    P.s.Esistono indici economici in grado di sconfessare che negli U.s.a. siano un modello economico solo perché sono più ricchi e produttivi complessivamente?

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    1. Classe media 2,5 più ricca non mi risulta proprio. In ogni caso i redditi della classe media in termini reali sono bloccati, negli USA, da più di trent'anni.
      La classe ricca è più ricca che in Europa, certo, ma questo riflette sperequazioni amplissime (anche se in Europa stiamo facendo di tutto, in questi ultimi anni, per imitare il modello USA...)
      La disoccupazione, infine, è esplosa a seguito della "Crisi Lehman" che è partita negli ultimi mesi della presidenza Bush. La crescita è poi proseguita nel primo periodo dell'amministrazione Obama, per poi invertire la tendenza grazie all'adozione di politiche keynesiane (deficit pubblico / PIL che ha superato il 10%, alla faccia di chi pensa di risanarsi puntando al pareggio di bilancio...)

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  10. What a stuff of un-ambiguity and preserveness of precious knowledge about unpredicted feelings.

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  11. Others uuse hypodermic needles to.

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  12. "Dietro alle affermazioni sulla necessità ineluttabile di tagliare il welfare (e le retribuzioni) c’è un concetto del genere: vent’anni fa Cina e India erano puntini minuscoli sulla mappa dell’economia mondiale, ora sono cresciuti e competono grazie a bassi salari e a bassi livelli di protezione sociale.", Dott.Marco Cattaneo

    In effetti c'è anche un altro fondamentale lato del successo economico della Cina che mette in risalto una verità molto scomoda e sconveniente alle elites occidentali, ecco degli aggiornamenti assolutamente fondamentali su USA e Cina in questo senso tenuti all’oscuro dai media mainstream occidentali, chissà come mai......


    Prima Parte.

    “It’s China’s World
    China has now reached parity with the U.S. on the 2019 Fortune Global 500—a signifier of the profound rivalries reshaping business today.”

    by Geoff Colvin for Fortune

    July 22, 2019

    As the Chinese Century nears its third decade, Fortune’s Global 500 shows how profoundly the world’s balance of power is shifting. American companies account for 121 of the world’s largest corporations by revenue. Chinese companies account for 129 (including 10 Taiwanese companies). For the first time since the debut of the Global 500 in 1990, and arguably for the first time since World War II, a nation other than the U.S. is at the top of the ranks of global big business.

    President Xi Jinping has said that by 2049, the communist revolution’s centennial, China will be “fully developed, rich, and powerful,” a goal that China expert Graham Allison of Harvard says includes being “unambiguously No. 1,” with a military “that can take on and defeat all adversaries.” With that in mind, be sure to read “Boxed In at the Docks,” which depicts China’s takeover of Greece’s largest port, and how it fits in China’s vast Belt and Road Initiative. The article describes the crucial role of China’s state-owned enterprises—82 of the Chinese firms in the Global 500 are “SOEs”—which receive generous subsidies that advantage them over the West’s private sector.

    Proseguimento:

    https://fortune.com/longform/fortune-global-500-china-companies/

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  13. Seconda Parte.

    “In a first, China has more companies on Fortune Global 500 list than the US

    The number of US companies on the list has declined to 121 from 126 last year
    The contribution of state-owned enterprises has risen to 80.2 per cent of Chinese companies on the list from 76.3 per cent last year”

    Proseguimento:

    https://www.scmp.com/business/companies/article/3019632/first-china-has-more-companies-fortune-global-500-list-us

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  14. Nota alla Prima e Seconda Parte.

    “State-Owned Enterprise (SOE)”
    by Will Kenton
    May 4, 2019

    What is a State-Owned Enterprise?

    A state-owned enterprise (SOE) is a legal entity that is created by a government in order to partake in commercial activities on the government’s behalf. It can be either wholly or partially owned by a government and is typically earmarked to participate in specific commercial activities.

    Proseguimento:

    https://www.investopedia.com/terms/s/soe.asp

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  15. 1. Terza ed ultima parte.

    “Il successo del modello IRI”, di G. Trombetta per FSI

    19 Settembre 2019

    La Cina supera per la prima volta gli Stati Uniti nel numero di aziende presenti nella lista delle migliori 500 stilata da Fortune: 129 contro 121. Di queste 129, l’80% è costituito da aziende di proprietà dello Stato, +4% rispetto all’anno precedente*.

    Il successo della Cina si basa praticamente su modello copiato da quello italianissimo dell’IRI. Ma la Cina non è un’eccezione, molti altri Paesi, la maggior parte di quelli industrializzati, vantano un’importante presenza dello Stato nell’economia, soprattutto quando si parla di grandi aziende. Guardando i dati viene fuori che dietro la Cina (96% delle aziende più grandi a guida statale), ci sono gli Emirati Arabi Uniti (88%), la Russia (81%), l’Indonesia (69%) e la Malesia (68%) (grafico 1). Guardando invece ai settori, non deve sorprendere che tra quelli con i rapporti più alti di partecipazione pubblica – tra il 20% e il 40% – ci siano quelli legati all’estrazione o al trattamento di risorse naturali, energia e industrie pesanti.

    Proseguimento:

    http://appelloalpopolo.it/?p=52846

    Quindi, la propaganda della globalizzazione in Europa: le grandi sfide della globalizzazione impongono un’unione economica europea fra paesi europei molto più stretta, bisogna fare la UEM, una volta fatta la UEM, i paesi europei tutti insieme saranno brillantemente all’altezza delle sfide della globalizzazione portando più prosperità per tutti, nella pratica invece hano stretto il cappio al collo agli stati aderenti alla UEM ( privatizzazioni aziende statali per entrarci, Mr. CambioFissoEuro, parametri di finanza pubblica uguali per tutti i paesi membri e al di fuori di ogni razionalità e logica e quindi mai sostenuti dalla scienza economica, divieto aiuti di Stato ad imprese in crisi per non distorcere la concorrenza fra imprese europee, Germania e Francia però più di qualche volta hanno fatto i ca... loro alla grande, paesi area euro diventati la sede di paradisi fiscali:Olanda, Germamia, Lussemburgo, Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Malta, e via dicendo….) e intanto la Cina con il suo modello di imprese cinesi a proprietà statale incominciava il suo cammino per diventare la fabbrica del mondo e ora addirittura nella classifica annuale delle 500 aziende più grandi a livello planetario stilata da Fortune ( i giganti della globalizzazione ) è arrivata in parità con gli USA e l’80% delle aziende cinesi in questa classifica sono a proprietà statale e c’è ancora chi dice che la globalizzazione deve per forza comunque continuare e quindi è un sacrilegio che in Europa gli stati aderenti alla UEM possano tornare alla propria sovranità monetaria, duri di comprendonio, servi delle elites occidentali globaliste, utopisti cosmici o che altro?

    Comunque, per concludere, molto probabilmente una persona con l'autorevole background formativo, professionale ed educativo ( vedasi questo suo ottimo Blog ) come il suo saprà anche cose del genere, quindi più che altro ho fatto queste segnalazioni su questo particolare aspetto a beneficio di eventuali lettori.

    Complimenti per questo suo ottimo articolo, buon prosieguo e cordiali saluti.

    TheTruthSeeker

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