giovedì 31 ottobre 2013

Euroexit: diamo una spallata o apriamo una porta ?


Spesso e volentieri, discutendo in merito alle alternative di uscita dall’attuale sistema monetario, mi sento esprimere questa obiezione.
 
“Sì va beh, questa “riforma morbida”, questo progetto CCF… ma a che serve parlarne, a Bruxelles, a Berlino, a Francoforte non ti staranno mai a sentire, non ce lo faranno mai fare”.
 
Un’obiezione che faccio veramente fatica a comprendere.
 
Scusate, ma il break-up dell’euro invece “ce lo fanno fare” ? Avete sentito Draghi, Merkel o Barroso dire “bella idea, è proprio quello che ci vuole ?”
 
Se vogliamo farci dire bravi da questi signori, è semplicissimo. Andiamo avanti così.
 
Siccome NON vogliamo andare avanti così, il punto in discussione non è di “fare quello che a loro piacerà”. E’ di scegliere una via che raggiunge gli obiettivi, e che massimizza le probabilità di avviarcisi e di percorrerla fino in fondo.
 
Ora, molti “euroexiters” mi appaiono presi da una gran voglia di “dare la spallata”. Il sistema  va spaccato, è giusto così, cosa fatta capo ha.
 
Magari alla fine avranno ragione loro. A me, sinceramente, ricordano quelli che avrebbero preferito vincere la guerra partigiana senza gli alleati.
 
Oppure sconfiggere Germania e Giappone senza Stalin.
 
Vi do una notizia: senza gli angloamericani il 25 aprile non ci sarebbe stato.
 
E un’altra: senza Stalin non giurerei che si sarebbe vinta la seconda guerra mondiale, e come minimo ci sarebbero voluti parecchi anni in più.
 
Le guerre si vincono anche e soprattutto avendo gli alleati giusti, ed evitando di farsi più nemici del necessario.
 
Ora, se l’attuale eurosistema, se l’attuale meccanismo di conduzione delle politiche economiche europee risponde a un disegno totalitario, autocratico, di impoverimento delle popolazioni – chi conduce questo disegno l’avremo sempre contro di noi.
 
Può essere. Io ritengo che i papaveri di Bruxelles – i Barroso, i Van Rompuy, gli Olli Rehn - siano più banalmente degli ottusi burocrati. Le politiche secondo loro “stanno funzionando” perché il rischio di break-up dell’euro apparentemente, rispetto a un anno fa, è molto diminuito, e se ci sono paesi in crisi “è colpa loro, bisogna incrementare la pressione sulle riforme e sulla competitività”.
 
Come che sia, questi signori li avremo sempre contro.
 
Tuttavia il loro peso non sarà determinante se ci sarà l’appoggio, o quantomeno il “benign neglect”, di una serie di altri attori – che hanno interessi ben definiti e comprensibili (non ho detto giusti o sbagliati, ho detto comprensibili).
 
L’industria esportatrice tedesca, che non vuole subire un’improvvisa perdita di competitività rispetto al resto del mondo (come avverrebbe se l’euro si spacca e se la moneta tedesca si rivaluta).
 
I detentori internazionali di crediti verso l’Italia, che non vogliono subirne la svalutazione.
 
La stessa opinione pubblica italiana, spaventata (per motivi più psicologici che reali, ma comunque concreti) dall’andare a letto una sera e svegliarsi la mattina con i propri risparmi che sono diventati “un’altra cosa”.
 
Il resto della comunità internazionale, che teme un “evento Lehman”.
 
Ora, di fronte a tutto questo, dire che i tedeschi, che i creditori internazionali “hanno guadagnato prima ed è giusto che lascino sul tavolo qualcosa adesso” è velleitario. Loro non la pensano così, o se lo pensano non hanno interesse ad ammetterlo.
 
Certo, anche attuare la “riforma morbida” richiede una volontà politica fortissima e un consenso di pubblica opinione altissimo. Ma ci si può arrivare.
 
Per il break-up, volontà e consenso devono essere ANCORA più forti, e le resistenze da superare saranno MOLTO maggiori.
 
Senza che ce ne sia ALCUN MOTIVO, perché le due strade, per l’Italia, sono equivalenti riguardo al risultato finale.
 
Allora - vogliamo provare a sfondare a spallate una porta massiccia ?
 
O vogliamo dar retta a chi ci indica che, sul retro, c’è una porta di servizio aperta ?

venerdì 25 ottobre 2013

Euroexit: la differenza tra Francia e Italia


L’altra domenica ero a Roma al convegno Reimpresa Italia, durante il quale si sono poste le basi per la costituzione della Rete sovranista L.I.R.A. (che punta a diventare un riferimento politico - partito o movimento d’opinione, si vedrà – sui temi del recupero dell’indipendenza monetaria, e non solo, italiana).
 
Uno dei perni di questa rete sarà A.R.S. (Associazione Riconquistare la Sovranità) e nell’occasione ho avuto il piacere di scambiare alcune opinioni con il suo fondatore, Stefano d’Andrea.
 
Tra lui e me c’è un punto di (amichevole s’intende) dissenso. La mia posizione è riformista e non rivoluzionaria. Nel senso che io analizzo il problema euro partendo principalmente dalla mia esperienza di tecnico (delle materie economiche e finanziarie). Il sistema monetario europeo è per me, in primo luogo, una macchina che non funziona, e mi concentro quindi su quale sia il modo migliore (più efficace e più rapido) per risolverne le disfunzionalità.
 
Questa è una visione parziale del problema, ne sono ben conscio. Perché sia nato e come si sia sviluppato l’euro-così-com’è-oggi, e come e perché si risolverà la crisi che ne è nata, dipende da fattori storici, politici e sociali ben più ampi.
 
Tuttavia, sarebbe un errore sottovalutare la componente tecnica del problema. I creatori dell’euro non ne hanno mai fatto mistero: hanno sprangato la porta e buttato via la chiave, confidando che nessuno l’avrebbe più ritrovata. E che si sarebbe andati avanti per mancanza di alternative.
 
In questo hanno commesso un errore di presunzione (non l’unico…). Non esistono porte chiuse per l’eternità. Però identificare il modo migliore per far saltare i chiavistelli è importante.
 
Allora, un punto chiave è: cambiare il sistema monetario senza un consenso forte e ampiamente maggioritario della pubblica opinione è difficilissimo.
 
E ottenere questo consenso è tutt’altro che banale, se si parla di ipotesi di break-up, ritorno improvviso alla moneta nazionale, conversione di debiti e crediti, svalutazione: soprattutto per un motivo.
 
Una parte amplissima del pubblico capisce, di tutto questo, UNA cosa sopra tutte le altre. Mi addormento una sera e la mattina dopo mi dicono che i miei soldi sono diventati un’altra cosa. E che quell’”altra cosa” si è svalutata, cioè che vale meno di prima.
 
Ora: non statemi a ripetere che la svalutazione non produce affatto inflazione nelle stesse proporzioni; che senza avere una moneta propria è impossibile avviare politiche di pieno impiego e far ripartire l’economia; che se possedete azioni, aziende e immobili il recupero del loro valore, con un’economia che torna in condizioni normali, sarà ben superiore alla svalutazione.
 
IO lo so. Tanti altri anche. Altri ancora arriveranno a capirlo. Ma ottenere un “consenso forte e ampiamente maggioritario della pubblica opinione” ? è possibile ? in quanto tempo ?
 
Su questo punto, Stefano d’Andrea mi faceva notare che il Front National di Marine Le Pen, stando ai sondaggi, oggi è il primo partito francese e propone l’uscita tout court della Francia dall’euro. Vero, ma…
 
Che cosa succede se le varie nazioni dell’eurozona tornano, ognuna, alle proprie monete nazionali ? Il Nuovo Marco si rivaluta rispetto ai livelli attuali. Su questo nessuno ha dubbi.
 
La Nuova Lira, Peseta, Escudo, Dracma si svalutano. Nessun dubbio neanche qui.
 
E il Nuovo Franco Francese ? starà in una qualche posizione intermedia tra la situazione tedesca e quella “mediterranea”. Se siete economisti e analizzate i dati di competitività dei vari paesi, arrivate alla conclusione che la Francia oggi è in una situazione più vicina a quella dell’Italia che alla Germania.
 
Per cui dovrebbe subire una svalutazione, anche se più modesta. Ma le parole chiave sono “dovrebbe” e “più modesta”. Ovvero: la svalutazione della Nuova Lira rispetto all’euro di oggi è certa. La svalutazione del Nuovo Franco Francese no, e comunque la misura sarebbe senz’altro inferiore.
 
Anche la Francia è fortemente danneggiata dall’attuale sistema monetario europeo, ma NON tanto perché abbia bisogno di una forte svalutazione. Per l’economia francese questo non è così importante.
 
La Francia è danneggiata soprattutto dall’altro problema dell’attuale sistema monetario europeo: i vincoli di Maastricht, e la costrizione a effettuare politiche di compressione della domanda e del deficit pubblico, in un contesto in cui l’economia sta lavorando molto al di sotto del suo potenziale e dei livelli compatibili con un’adeguata situazione di occupazione.
 
Naturalmente il francese medio non è un economista, come non lo è l’italiano  medio. Ma un’intuizione generale di queste cose, grosso modo corretta, ce l’ha.
 
Aggiungiamo (saranno magari stereotipi, ma un fondo di verità, e anche di più, c’è…) le caratteristiche delle due nazioni. L’orgoglio nazionale transalpino da un lato, la nostra cronica tendenza all’autodenigrazione dall’altro.
 
Ma ve lo immaginate un vicedirettore del principale giornale economico francese dire in TV che uscendo dall’euro la benzina “costerebbe sette volte tanto” ?
 
E il fondatore di uno dei più importanti giornali d'opinione affermare che fuori dall’euro la Francia “diventerebbe come l’Egitto o il Marocco ?”
 
Non lo dicono perché non è vero, certo. Ma non è vero neanche nel caso dell’Italia, e Plateroti e Scalfari però lo affermano, e qualcuno ci crede pure, e molti altri pensano che sia “magari un po’ esagerato, però…”
 
Costruire un forte consenso di pubblica opinione sul break-up “secco” è più difficile in Italia che in Francia. Questo è non l’unica, ma sicuramente un’importante ragione per la quale preferisco una strada "morbida" e riformista.
 
Poi, se pensiamo che sarà Marine Le Pen o chi per essa a far saltare il banco, possiamo anche non fare niente se non attendere pazienti.
 
Ma non è scontato, nulla lo è. E comunque il break-up è una via del tipo “il palazzo brucia, buttati dalla finestra, non siamo così in alto e sotto c’è un telone.”
 
La riforma “morbida” è: “c’è una scala di servizio agibile. Scendi veloce a piedi.”
 
Ne riparliamo presto.

martedì 22 ottobre 2013

Debito estero italiano e saldi Target2: qualche dato e qualche riflessione


Scambiando alcuni commenti con Nicola Bernini, ci siamo trovati a disquisire di quale sia il livello del debito estero italiano e di come si sia formato.
 
Una prima riflessione: come già visto qui, l’Italia ha perso competitività dall’avvento dell’euro in poi – ma questa perdita di competitività si è tradotta in deficit commerciali di importo (in proporzione al PIL) molto inferiore rispetto a Spagna e Grecia.
 
L’Italia ha avuto (anche prima della crisi) problemi di crescita, mentre iberici ed ellenici hanno registrato una “fiammata” di sviluppo - il cui prezzo però è stato l’accumulo di massicci livelli di debito estero. Questo accumulo è stato, per quanto ci riguarda, decisamente inferiore.
 
A fine 1998 la posizione finanziaria netta dell’Italia verso l’estero era negativa per il 9% del PIL 1998 (1.070 miliardi di euro), quindi per 96 miliardi.
 
A fine 2012 eravamo saliti al 24,8% su un PIL di 1.566, quindi a 388 miliardi.
 
L’incremento è stato quindi pari a 388 meno 96 = 292, mentre le partite correnti italiane nel periodo 1999-2012 hanno registrato un deficit cumulato di 249. Le due cifre sono abbastanza vicine anche se non proprio identiche (non so se a causa di approssimazioni nelle stime, dell'effetto dei cambi sulle attività e passività in valuta o per altre ragioni).
 
Fin qui, approssimazioni a parte, tutto fila come ci si poteva aspettare: le partite correnti in deficit alimentano debito estero.
 
C’è però un altro elemento: una parte dell’indebitamento con l’estero è costituita dagli ormai famosi saldi Target2. Su che cosa siano esattamente ci sarebbe da scrivere un articolo apposito (anzi lo scriverò, pazientate un attimo…) comunque in buona sostanza si tratta di debiti che la Banca d’Italia ha nei confronti della Banca Centrale Europea, dovuti al fatto che residenti italiani hanno trasferito fondi presso istituti situati in altri paesi dell’Eurozona. La nazione che ha i maggiori saldi attivi per quanto riguarda i Target2 è (l’avevate indovinato…) la Germania: nel loro caso sono crediti della Bundesbank verso la BCE.
 
Nicola citava una spiegazione che si legge abbastanza di frequente, in merito al fatto che i saldi Target2 si sono molto accresciuti soprattutto dal 2010 in poi: le distorsioni causate dall’euro hanno “danneggiato la bilancia commerciale (dei paesi del Sud) portandola strutturalmente in passivo, che è stato colmato dapprima da credito che arrivava da banche estere (che finanziavano export delle nazioni relative) poi da Target2.”
 
Ovvero, da un certo punto in poi i deficit commerciali non sono stati più finanziati dal mercato finanziario, e i Target2 sono subentrati a svolgere quella funzione.
 
Ho però il dubbio che non sia così, e i motivi sono i seguenti.
 
Uno, i Target2 hanno avuto il massimo della loro crescita nel primo semestre del 2012, quando i deficit commerciali del Sud Europa stavano invece rallentando moltissimo (“grazie” all’austerità e al crollo della domanda interna).
 
Due, dopo un massimo raggiunto nell’agosto del 2012, in corrispondenza del “whatever it takes” di Draghi i Target2 hanno invece cominciato a scendere.
 

 
Saldi Target2 in mld
 
Ago 2012
Dic 2012
Ago 2013
Germania
 
751
656
574
Paesi Bassi
125
121
60
Finlandia
 
62
61
27
Belgio
 
-36
-38
-15
Austria
 
-43
-38
-41
Lussemburgo
117
106
105
Centro
 
976
868
710
Francia
 
-5
-74
-50
Slovacchia
1
1
1
Estonia
 
1
2
1
Malta
 
-1
 
 
Paesi intermedi
-4
-71
-48
Spagna
 
-434
-337
-282
Italia
 
-289
-255
-234
Grecia
 
-108
-98
-54
Portogallo
 
-72
-66
-64
Irlanda
 
-96
-79
-40
Cipro
 
-10
-7
-7
Slovenia
 
-6
-4
-4
Periferia
 
-1.015
-846
-685
Totale Eurozona
-43
-49
-23

 
Tutto questo mi fa pensare che i Target2 non siano stati un canale di finanziamento dei deficit commerciali (se non marginalmente) bensì il riscontro contabile di trasferimenti di attività finanziarie, motivati dal timore che l’euro si “spaccasse” e che un deposito presso una banca tedesca si rivalutasse rispetto a uno presso una banca italiana, spagnola o greca.
 
Timore parzialmente rientrato (a torto o a ragione si vedrà) dopo l’agosto del 2012.
 
In pratica, i Target2 sono il riflesso di operazioni di speculazione o di copertura del rischio di break-up dell’euro. Con il finanziamento dei deficit commerciali, hanno poco o nulla a che vedere.
 
C’è comunque ancora da riflettere e lavorare sulla cosa… ogni contributo / suggerimento / riflessione è gradito.